Dopo
la fascinazione figurativa di
La Tigre
e il Dragone
e la leggerezza intimista di
Il gusto
degli altri
ecco un altro titolo che riconcilia con il cinema d'essai.
Billy Elliot,
presentato come il nuovo Full
Monty
del cinema britannico, candidato a tre premi oscar, non è il capolavoro
annunciato, ma è un film delicato, amorevolmente commerciale e incisivamente
sincero. L'atmosfera
è quella suburbana di un'Inghilterra proletaria: il rigore di
Loach è lontano, ma l'ambiente minerario e la profonda umanità dei
personaggi rigenerano quell'aura di commossa partecipazione che aveva
fatto la fortuna di Grazie
signora Thatcher.
Qui la storia è ancora più personale perché si concentra sull'avventura
di un ragazzo che sente di trovare la propria realizzazione nel balletto
classico piuttosto che nel pugilato. Tra l'imbarazzo per una scelta
"effeminata" e la crescente consapevolezza di una verve danzante
indomabile, Billy
Elliot
tocca corde di universale, empatica identificazione. La valenza liberatoria
di movimento & musica viene espressa con un tocco cinematografico
suadente e amabile, anche se talvolta ingenuo e retorico. Stephen Daldry
eccede certo in un amalgama di immagini e suoni più "descrittivo"
che compiutamente diegetico (la prima parte è più che mai efficace in
taglio di inquadrature, ritmo di montaggio, abbozzo di psicologie, poi…),
ma il fine narrativo in fondo è raggiunto, quei poliziotti che presiedono
ad ogni sequenza ben rendono l'atmosfera di un'esistenza "costretta"
da cui solo il librarsi artistico può dare evasione e, tra un tutù negato
e l'irrompere magico di un brano soft-rock, la palpitante emozione di
Billy si fa nostra.
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