Girlfight
Karyn Kusuma - USA 2000 - 1h 50'
[opera prima]

da La Repubblica (Roberto Nepoti)

Se esiste un cinema che ti violenta con la tenerezza - ieri quello di Truffaut, oggi quello di Ken Loach - è raro trovare un film che, come veicolo della tenerezza, scelga i cazzotti. È proprio calzando i guantoni, però, che Karyn Kusama si aggiunge alla lista dei cineasti capaci di mettere in immagini la tenerezza. Già assistente di John Sayles, con Girlfight la regista ci racconta una storia di rabbia redenta dallo sport; ma lo fa da una prospettiva ribaltata come un guanto rispetto alla retorica del "boxe movie" maschile. Diana (Michelle Rodriguez), orfana di madre, vive col padre ubriacone nel quartiereghetto di Brooklyn ed è una palla di rabbia, pronta a spaccare la faccia a chiunque in qualsiasi momento. L'incontro col pugilato innesca in lei uno strano processo di metamorfosi. Non solo le dà la possibilità di incanalare la sua furia verso un obiettivo (il che rientra nel classico repertorio del genere); ad onta degli squallidi spogliatoi e dei miserabili ring le regala la cosa di cui aveva davvero bisogno: l'attenzione e l'interesse degli altri, che è la condizione fondamentale per acquisire il rispetto di se stessa. Praticando uno sport così violento, ad ogni pugno dato o incassato Diana si intenerisce di più, si apre all'esterno, sboccia psicologicamente e fisicamente. Copione vuole che uno sport considerato fra i più spietati sia anche l'occasione offerta a Diana per scoprire l'amore, nella persona di un giovane e promettente collega. E questo la porterà a dover scegliere fra due aspetti importanti della sua vita. Ma, per quanto ben riconoscibili siano le convenzioni del film di boxe, in altre parole, non è meno chiara una cosa: a Kusama interessa ben poco il pugilato, moltissimo la pugilatrice. Girlfight è una metafora doppiamente liberatoria: oltreché contro l'indifferenza dell'ambiente, la protagonista si batte contro la mentalità secondo cui una ragazza è approvata quando pratica la danza o gli sport aggraziati, stigmatizzata se si dedica a uno sport violento. La sua ruvida tenerezza fa perdonare volentieri a Karyn qualche eccesso di commozione cui, nella parte finale, ricorre per stendere definitivamente al tappeto lo spettatore. Nella gragnuola di colpi bassi che la produzione corrente ci infligge di continuo, non sarà certo questo a meritarle la squalifica.

da La Stampa (Lietta Tornabuoni)

... Il pugilato femminile è già abbastanza diffuso da non rappresentare una trovata bislacca. Il primo film diretto da Karyn Kusama rientrerebbe nelle oneste convenzioni ottimiste e accomodanti se non fosse per la protagonista Michelle Rodriguez, una ragazzina portoricana manesca piena di odio verso il mondo e di violenza, portata alla rissa e all’aggressione, assediata dal ricordo della madre suicidatasi perché ogni giorno pestata di botte dal marito. Il suo fisico oscillante tra potenza e adolescenza, il suo passaggio da un atteggiamento trucido alla passione combattente, la mutazione del suo corpo attraverso allenamenti e incontri di boxe, la disperazione e poi il trionfo nel suo sguardo, sono ammirevoli: da attrice vera.

cinema invisibile cinema LUX maggio-giugno 2001
guantoni o tutù?

per tamburini... Una ragazza sul ring, a combattere contro i pregiudizi nel ghetto di Brooklyn. Alla regia interessa ben poco il pugilato, moltissimo la pugilatrice… Una storia di rabbia redenta dallo sport, un'educazione sentimentale di maschia femminilità, un  cinema che descrive la violenza e genera tenerezza.