La
tristezza e la tragedia non si addicono al Natale, d'accordo, ma se parliamo
di cinema vero, di quello che si costruisce di immagini e di realtà, di "pezzi
di vita" sinceri e di valori umani profondi, beh il film di questo fine d'anno
è certamente
My Name is Joe
di Ken Loach.
Breve filmografia di
Loach
per i distratti. Tra gli autori del free cinema (Poor
Cow, 1967), lascia un segno indelebile
per la "militanza" sociale del suoi lavori in televisione
e per l'impietoso sguardo sull'alienazione familiare di Family
Life (1971, indimenticabile!). Capace
di coniugare con naturalezza il rigore documentarista e l'energia del
dramma, si fa cantore della working-class, ma resta lontano per quasi
un decennio dal grande schermo tornando, prepotentemente, con la grinta
proletaria di Riff-Raff,
Piovono
pietre,
Ladybird, Ladybird
(91-94). Il grande pubblico lo scopre per l'intensa rievocazione epico-contraddittoria
della guerra di Spagna (Terra e libertà,
1995) e per la struggente denuncia romantica di
La
canzone di Carla
(1996, sulle recenti violenze in Nicaragua),
ma il registro che gli è più congeniale resta quello ancorato
alla realtà sociale britannica, ai suoi non-eroi della classe
operaia, alle loro storie minimaliste di quotidiana sopravvivenza.
In
questa più verace vena civile si colloca
My Name is Joe,
che vive della sofferenza e degli aneliti di serenità di Joe
Kavanagh, ex alcolista, il quale vive col sussidio di disoccupazione
e si dà da fare per tenere alto il morale (e il gioco) della
squadra di calcio dei giovani del quartiere. Siamo a Glasgow, gli anni
sono sempre questi fatidici di fine secolo, segnati, per il proletariato
britannico, dalla disoccupazione e dalla droga, dal degrado sociale
e dai soprusi. Joe sembra esserne fuori, ha
anche la fortuna di conoscere Sarah, un'impiegata del dipartimento di
sanità, con la quale costruisce un inaspettato (vista la differenza
di classe) legame sentimentale. Ma uno dei ragazzi della squadra, Liam,
è nei guai: uscito da poco dal carcere e dalla tossicodipendenza,
con una moglie che ancora si buca ed un bambino che rischia di essergli
sottratto dall'assistenza sociale, deve vedersela col racket locale
a cui è debitore di una grossa somma di denaro. Per aiutarlo
Joe (un formidabile Peter Mullan, vitale e comunicativo) arriva ad invischiarsi
in traffici illegali, compromette il suo rapporto con Sarah, perde le
staffe, sfida il boss locale, si riaffida alla bottiglia...
L'escalation di destabilizzazione e disperazione che investe Joe è
descritto da Loach con quel suo magico tocco di lievità documentarista,
di spontaneità d'affetti, di intensità di sguardi, situazioni,
emozioni. Nella sceneggiatura del fido Paul Laverty ogni quadro ha un suo
spessore narrativo, ogni aspetto del vivere dei personaggi è intriso
di un'intima valenza civile. In
My Name is Joe valori come l'amicizia,
l'amore, la solidarietà emergono con naturalezza nella radicalità
del racconto ed anche quando lo schermo trasuda l'angoscia di una ineluttabile,
tragica conclusione, la scrittura cinematografica sa coniugare il cupo
fatalismo del dramma con un finale carico di umanità e di speranza.
Se vi eravate convinti che la verve sociale del cinema britannico si fosse
esaurita nella scanzonata trasgressione di
Full
Monty, tornate con i piedi per terra con
My Name is Joe.
Cinema e testimonianza civile, coerenza d'ideali e passionalità
filmica per Loach hanno ancora un senso compito.
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