È
iniziato un po' per caso, è proseguito per gioco. Ma un gioco serio.
Abbas
Kiarostami aveva
inizialmente proposto una trilogia documentaristica. E indicò come
ideali compagni di avventura
Ermanno Olmi
e
Ken
Loach. Non si erano mai conosciuti ma si stimavano
a distanza e ognuno conosceva le opere dell'altro: la scintilla dell'intesa
fu immediata. Olmi butta lì un'idea di partenza e gli altri due si
adeguano: un viaggio in treno tra la Germania e l'Italia. Non un film
a episodi ma un unico film in cui alcuni personaggi via via svaniscono
mentre altri stanno ora sullo sfondo ora in primo piano. Il passaggio
di mano in mano, da un regista all'altro, non è segnalato: anche se
sono riconoscibili le diverse sensibilità, i rispettivi "tocchi".
Inizia Olmi con un attempato signore (Carlo Delle Piane) che s'innamora
platonicamente, solo idealmente, di una giovane donna che lo ha accompagnato
in stazione (Valeria Bruni Tedeschi), e affida al computer una lettera-confessione
destinata a non essere mai completata né inviata. Prende poi il sopravvento
(Kiarostami) la figura di una donna capricciosa e arrogante, vedova
di un militare neanche lei giovane (Silvana De Santis), avviata a
partecipare a una cerimonia commemorativa, che vessa il suo giovane
accompagnatore, un ragazzo impegnato nel servizio civile. E nella
parte finale riemerge una famiglia di immigrati clandestini - già
visti sullo sfondo della prima parte, oggetto di un gesto solidale
da parte del signore innamorato - che derubano un terzetto di ragazzi
inglesi tifosi del Celtic, diretti a Roma per una finale di coppa.
Irruenti e generosi, i tre finiranno per inguaiarsi pur di aiutare
i clandestini. Più di tutti riconoscibile, questo è puro Loach come
tipologia dei personaggi. Che cosa intendevano fare, esprimere, comunicare
i tre? Tre campioni di un cinema dai caratteri profondamente europei,
sociali, umani, refrattario alle leggi dello spettacolo. Imbastire
un intreccio di quotidiana inestricabile convivenza tra bontà e cattiveria,
mettere in piedi un osservatorio sulla piccola-grande umanità che
formicola, s'incontra e si lascia, in una situazione topica come è
quella della condivisione di un viaggio in treno. Un gioco leggero,
si diceva (e non privo di difetti), ma non senza la volontà di gettare
qua e là semi di inquietudine, dilemmi morali della vita di tutti
i giorni, interrogativi che sono sotto i nostri occhi continuamente
anche se la tentazione di girare la testa è prepotente sull'ingiustizia
che divide chi - metaforicamente - può permettersi un "biglietto"
- un ticket - e chi no.
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