Il
cinema come folgorazione figurativa. Quando il custode della
Biblioteca di Bologna volge di nuovo lo sguardo oltre l’inferriata
della sala antica e anche allo spettatore è concessa la piena visione
di quanto ha così sconvolto il pover’uomo, l’immagine che riempie lo
schermo è di quelle che resta, fervida, negli occhi: incunaboli,
codici e preziosi manoscritti sparsi dappertutto, trafitti, inchiodati
ai tavoli e al pavimento.
L’indagine che ne segue ha ben poca suspense; è presto detto che
l’autore dello scempio è proprio un addetto ai lavori, il
“professorino” (Raz Degan), bel tenebroso docente di filosofia che si
è così accanito sui testi della sua formazione universitaria spinto
(lo scopriremo cammin facendo) dal rigetto di una dogmaticità arida e
invasiva (“le religioni non hanno mai salvato il mondo”) e di una
cultura egemonica lontana dai veri, “semplici” bisogni dell’uomo (“c’è
più verità in una carezza che in tutte le pagine di questi libri”).
L’approdo per questo anti-protagonista di una società secolarizzata
(“ogni spiritualità si traduce in profitto”) non può che essere un
eremo di genuina consapevolezza. Gli ambienti naturali che abbracciano
il corso emiliano del Po riservano incontri di verace umanità: la
bella panettiera che non vuol lasciarsi sfuggire l’occasione di un
ballo col fascinoso ospite (sulle nostalgiche note di
Non ti scordar
di me), un giovane postino ex-muratore che lo aiuta a rappezzare un
disabitato rudere sulle sponde del fiume, una stravagante comunità di
anziani che, nella pace agreste, glissa da sempre qualsiasi
problematica legata agli insediamenti abusivi.
L’incontro è occasione per una fervida, reciproca crescita umana. Il
fuggiasco trova conforto nella comunicatività della gente comune,
nell’incanto di uno spazio-tempo elegiaco; gli “indigeni” mediano la
loro saggezza popolare con gli evangelici racconti che il novello Gesù
elargisce loro (il cinema come purezza evocativa!).
Il tempo si è fermato
era il titolo del primo lungometraggio di
Ermanno Olmi
, ma in
Centochiodi l’autore de
L’albero degli zoccoli
sembra abbracciare sia la soavità bucolica di Piavoli
che l’allegoria
felliniana
(il battello sul fiume non rimanda forse al “Rex” di
Amarcord?), sembra volersi riappropriare di una poesia teologica
affabulante e primordiale (ricordate la lettura dell’epifania in
Camminacammina?),
rimettere in gioco la Fede non ancorandosi ad una divinità lontana (si
arriva ad un “il grande massacratore renderà conto di tutta la
sofferenza del mondo”), ma riscoprendola attraverso un’umanità scevra
da compromessi e sovrastrutture, capace di rischiare la propria
credibilità culturale (“è forse la follia la soluzione per la nostra
esistenza?”) e di non presentarsi all’appello neppure nel momento
topico di una consolatoria ricomposizione d’intenti e di affetti: nel
finale la strada lastricata di lumini che la comunità del fiume ha
preparato per il ritorno del professore (arrestato - “del tutto
responsabile, ma non colpevole” - e processato) resterà, nella notte,
inesorabilmente vuota…
Il fatto è che Olmi, dopo la compattezza storico-introspettiva de
Il mestiere
delle armi
e l’arioso respiro metaforico di
Cantando
dietro ai paraventi,
chiude qui il suo percorso d’autore (ha dichiarato che in futuro girerà
solo a documentari) con un’opera “alta” ma irrisolta, in cui mentre
la profondità impetuosa dell’assunto filosofico riscopre la pace di
una (in)genuinità rivitalizzante, la suggestione del racconto si stempera
in una spontaneità artefatta.
“Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico”. Anche
cento chiodi, piantati con maestria, non possono reggere fino in fondo
una favola cinematografica così ascetica e così declamatoria, così
profonda e così banale.
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