Fiabe di provincia, sogni
in celluloide
Lasciatecelo
ricordare con nome e cognome, non
con la falsa cordialità di Federico o con la retorica ossequiosa
di "il maestro".
Federico
Fellini, 73 anni, di Rimini, uno
dei più grandi autori del cinema italiano, un regista fuori dalle
mode e dalle correnti, prima di tutte quella del neorealismo, così
legato ai suoi esordi (fu tra gli sceneggiatori di Roma città
aperta e Paisà) e così lontana invece dal suo
stile, fatto di invenzioni, ricordi autobiografici e nostalgie, esaltati
da una vena fantastica, ironica e sognante. Eppure
tra la commozione e le ovazioni di queste settimane sembra ci si sia dimenticati
di certa non sintonia con critica e pubblico nell'ultimo decennio e che
la grande stagione felliniana ha regalato veri capolavori non sempre all'epoca
unanimemente riconosciuti, ma ormai entrati di diritto nell'immaginario
collettivo della filmografia mondiale.
Quando, ad esempio, nel 1954 realizzò
La strada, Fellini
aveva al suo attivo già il successo de
I Vitelloni, premiato
l'anno prima a Venezia con il Leone d'argento, ma ci volle l'oscar
perché tutti riconoscessero la grandezza della favola triste del rude
Zampanò e della dolce Gelsomina interpretata dalla moglie del
regista, Giulietta Masina.
Allegoria, amore e speranza, solitudine e incomunicabilità. Il mondo
di Fellini crebbe con la bizzarria dei suoi personaggi e l'originalità
delle sue fiabe in bilico tra il sociale e il privato:
Il bidone,
Le notti di
Cabiria,
Giulietta degli spiriti.
E, in mezzo,
due capolavori assoluti:
La dolce vita, del 59, e
8½
del 63. Film-scandalo
il primo, impietosa analisi della vacuità della condizione umana
contemporanea. Film-monumento autobiografico sulle contraddizioni dell'artista,
8½ fu ancor più straordinario per ricchezza d'inventiva,
in stile e contenuti, che ne fecero un esempio principe di film-nel-film.
Si sarebbe ripetuto, in forza nostalgica e festa allegorica con
Amarcord
che brillò di luce internazionale (fu il quarto
oscar)
e che tirò le fila di una produzione sempre estroversa e lussureggiante,
dalla follia mefistofelica di
Toby Dammit (episodio di Tre
passi nel delirio) agli scenari sgargianti e ossessivi di
Fellini-Satyricon,
Roma,
Il casanova,
La città delle donne, fino
all'incisiva metafora di
Prova d'orchestra, del 1979, forse il
vero canto del cigno della lucidità fantasiosa di Fellini.
Chi in questi anni ha apprezzato opere come
E la nave va,
Ginger
e Fred,
L'intervista,
La voce della luna sappia che ha
conosciuto solo il feed-back della sua genialità: film dignitosi,
ma lavori senili, riedizioni di una complessità autoriale che è
stata ben superiore, e alla quale hanno contribuito oltre alla musa Masina,
un attore cardine come
Mastroianni, il fotografo Giuseppe Rotunno, il compianto
musicista Nino Rota, una vera scuola d'arte cinematografica della quale
sì Federico Fellini può essere ricordato come il vero maestro.
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