Quali sono i
segnali della nuova forza del cinema italiano? Indubbiamente l'eclatante
successo commerciale che ha accompagnato i turbamenti post-adolescenziali
del neo sposo Stefano Accorsi (L'ultimo
bacio
- 23 miliardi!) e lo sconvolgimento
esistenziale di Margherita Buy nell'aura utopica del gay-power (Le
fate ignoranti
- oltre 10 miliardi), ma
più significativo è certo il credito che il nostro cinema sta avendo
all'estero. Se I
cento passi,
dopo aver fatto bella mostra di sé al Festival di Venezia, non è riuscito
ad entrare tra i candidati all'oscar, ora la Palma d'oro a La
stanza del figlio corrobora il quasi unanime apprezzamento al
nuovo Moretti (ben piazzato anch'egli al botteghino: per ora 8 miliardi),
ma il vero evento cinematografico made in Italy è il ritorno sul
grande schermo di
Ermanno Olmi
con un film come Il
mestiere delle armi
che è una vera
folgorazione di stile e, al contempo, un'opera ostica e refrattaria
all'emozione superficiale (non per niente i francesi l'hanno snobbato!).
È curioso che due autori come Avati e Olmi abbiano rivolto entrambi lo sguardo
all'epica cavalleresca, ma mentre
I
cavalieri che fecero l'impresa dipana
un confuso e truculento fumettone sulla leggenda della Sacra Sindone,
Il mestiere delle armi concentra il suo narrare sulla calata dei Lanzichenecchi
su Roma (1526), ergendo a martire-eroe quel Joanni de' Medici che tutti abbiamo
conosciuto nei libri di storia come Giovanni dalle Bande Nere (i suoi vessilli
con la fascia scura, le armature dei suoi uomini brunite per i combattimenti
notturni…).
Per Olmi la triste istoria di Giovanni è l'occasione per ripercorrere
l'infida brutalità di un secolo in cui potere, religione e progresso
si fronteggiavano con "storica" incoerenza, per dipingere
scenari di battaglia e di morte su fondali di un autunno avanzato (freddo,
nebbia, neve) che è specchio della mestizia dell'animo. Quadri statici
di un'architettura che amalgama la strategia della natura e del combattimento
(le brume del paesaggio irto delle lunghe lance), movimenti e tagli
d'inquadratura che hanno il respiro possente di un cinema classico.
I richiami vanno a Welles e Kurosawa,
l'essenzialità assoluta, l'astrazione di un'umanità succube alle faide
delle coscienze riporta a Rossellini, il peso, immobile, di un realtà
enigmatica evoca Tarkovski e Bresson.
Ma Il
mestiere delle armi è
soprattutto Ermanno Olmi, un Olmi forse mai così lucido e rigoroso che
esplora la coreografia emblematica delle scene di massa, che dà vita
(corposa e nefasta) agli oggetti epocali della vicenda: le corazze e
gli elmi di gelida maestosità, il crocefisso usato come legna da ardere,
i falconetti (le nuove bombarde dei nemici), la cui forgiatura diventa
greve presagio della fine di Joanni. Colpito ad una gamba da un micidiale
proiettile, il capitano di ventura al servizio di Papa Clemente VII
finisce i suoi giorni divorato dalla cancrena. Affidato alle cure impotenti
dei medici (le sanguisughe rifiutano il sangue infetto, l'amputazione
arriva quale rimedio tardivo), Giovanni dalle Bande Nere, immobilizzato
nel suo letto di morte, alza lo sguardo ai lussureggianti affreschi
che decorano la stanza, sogna la moglie e il figlio (e un'amante, per
la quale Olmi si concede inediti flash di sobria sensualità), cede allo
sfinimento del corpo e dello spirito senza un contraddittorio inquisitore
come in Giovanna
d'Arco,
ma con lo stesso incombente spessore figurativo e metafisico. Il rito
funebre, che apre e chiude il film, segna la fine di un eroe
a tutto tondo e di un'epoca bellica ancora austera nella ritualità
dei gesti e leale nella veemenza degli scontri. La nobile arte della
guerra diventa scienza di strage, la tragedia della morte violenta del
singolo resta un delitto al cospetto di Dio e degli uomini.
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