Il
lutto come esercizio di stile. Con La
stanza del figlio
Nanni Moretti devia dal suo abituale percorso autobiografico-sociale,
sempre al limite del paradosso tra riflessioni generazionali e moralismi
civili, e punta deciso ad un'analisi esistenziale placida e profonda,
che parte dalle banalità del quotidiano familiare (con solo scarni
accenni di "morettismo") per approdare ad una situazione di estrema
angoscia. In casa - Giovanni, padre psicanalista (Moretti), Paola,
madre editrice (Laura Morante, sempre intensa) - il rapporto con i
figli Andrea e Irene (Giuseppe Sanfelice e Jasmine Trinca, entrambi
bravissimi) è sereno, di reciproca fiducia e affabilità (tutti insieme,
in macchina cantano Insieme a te non ci sto più…). I
casuali problemi scolastici, sportivi, relazionali sono risolti con
amabile compartecipazione e le uniche tensioni che emergono nella
prima parte del film sono quelle della "stanza del padre", raccolte
dal terapeuta in seduta coi suoi pazienti. Quando la tragedia irrompe
(Andrea annega durante una gita domenicale con gli amici sub) la maturazione
registica di Moretti
è
evidente: l'abbraccio comune nella disperazione alla notizia, la terribile
solitudine interiore al momento della chiusura della bara, l'incapacità
di trovare una comunanza nel dolore in una famiglia pur abitualmente
unita sono rappresentati con sobria, toccante lucidità. C'è il tarlo
di rivisitazione e rimorso che assilla il padre (se quella domenica
non fosse andato da quel "maledetto" paziente…), il nervosismo a fior
di pelle di Irene, l'urlo intimo e straziante, a fatica
soffocato, della madre. E la chiave di volta per una ritrovata armonia
sta proprio nella tensione non doma di Paola verso il recupero indotto
di un altro affetto perduto: l'accenno di una storia d'amore che è
rimasta nel cuore di un'amica di Andrea, Arianna, diventa vero filo
di Arianna per ritrovare la voglia di vivere, per riprendere il
contatto col figlio nel sorriso del ricordo, per "rientrare" amorevolmente
nella sua stanza (le foto portate da Arianna), per cogliere l'occasione
per una gita "oltre confine" (da Ancona alla Costa Azzurra). Non c'è
ancora, certo, la forza liberatoria di canticchiare la Caselli, ma
il camminare insieme, se pur solitari, sulla spiaggia di un "altro
mare" ha un'esplicita valenza taumaturgica. Traspare, ne
La stanza del figlio,
un'elegia della sofferenza interiore, della veglia laica di una famiglia
al
capezzale del proprio sconvolgimento che non può non lasciare indifferenti
e che dà piena consapevolezza di come il cinema di Nanni Moretti sia
da sempre un veicolo di riflessione, approfondimento e cultura, troppe
volte sottovalutato da non addetti ai lavori. Eppure proprio in questo
raggiunto stato di grazia, fuori dalle idiosincrasie personali e dalla
autorialità eccentrica, il respiro del Moretti-pensiero sembra avere
il fiato corto. O meglio, il pathos di una tragedia così grande e
assurda (un incubo forse consequenziale per l'entusiasta regista-papà
di Aprile),
raggiunto l'apice in quell'abbraccio familiare e nello sfogo contro
le stoviglie sbeccate e la "cazzata" del brano evangelico
("se il padrone da casa sapesse a che ora viene il ladro, non si
lascerebbe scassinare la casa"), resta poi come sospeso nel pudore
di un dramma in cui la satira morettiana non è praticabile e l'abituale
verbosità, di solito cadenzata al ritmo di massime-nonsense, è qui
incanalata nello standardizzato blaterare sul lettino dello psicanalista.
L'ironia di Allen
e l'utopia di Mumford
non hanno lasciato un segno? Le confessioni dei pazienti del dott.
Giovanni saranno anche credibili, ma si risolvono in un fastidioso
tarlo narrativo che alla lunga non convince e mina l'escalation identificativa.
Fortunatamente non esperto, non coinvolto in un evento così sopra
le righe del suo abituale tran-tran esistenziale, Nanni Moretti costruisce
uno splendido teorema stilistico in cui mette la sua anima di autore,
ma a cui manca lo spirito efficace della testimonianza vissuta. Un'esercitazione
formale impeccabile, un trattato estetico sulla lacerazione della
morte, un film sospeso alle porte dell'emozione.
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