Pensate
a
Family Life
(1971): la famiglia lacerata dalle incomprensioni generazionali, la
sovversione alle regole della tradizione vista come seme della follia.
Pensate a Riff-Raff
(1990): la rabbia e la ribellione per un posto di lavoro sempre più
precario, per una sicurezza sociale messa in quarantena. Cinema di
protesta quello di Ken
Loach, cinema di impegno civile,
di difesa della working class. Un tipo di cinema oggi non solo “politicamente
scorretto”, ma quasi anacronistico visto che in
Sweet Sixteen
per le certa classe sociale il lavoro è niente di più che un miraggio
e che l’agognata pace familiare solo un sogno idealizzato, un’utopia
affettiva da cui affrancarsi.
È straziante Sweet Sixteen perché quella “dolcezza” è una chimera
per i sedici anni
di Liam, che li compirà proprio in concomitanza
con l’uscita dal carcere della madre. Il ragazzo fa di tutto per prepararle
un ritorno “felice”: vuole comprarle una roulotte (in cui possa vivere
lontana dallo squallore di truffe e spaccio in cui l’ha coinvolta
l’uomo con cui viveva) e per trovare i soldi si invischia nel giro
della droga (pizze e dosi in pronta consegna!), è costretto a spezzare
il profondo legame che lo univa al suo unico, fraterno amico Pinball,
si costruisce un avvenire da piccolo boss di quartiere così da sistemarsi
alfine in un elegante appartamento di una nuova zona residenziale…
Ma i tasselli di una “riconciliata” esistenzialità sono destinati
a non combaciare nell’abbrutente realtà dei sobborghi di Glasgow
e l’incalzante, amaro procedere dello script del fido Paul Laverty
(da anni firma “garante”, da
La canzone
di Carla a Bread
& Roses) non lascia spazio alla speranza: in un finale
“aperto”, ma chiuso dall’ineluttabilità del fallimento e della disperazione,
Liam è solo con se stesso, passeggia davanti al mare come l’Antoine
Doinel di Truffaut ma non ha una corsa liberatoria alle spalle, non
un fermo immagine che lo salvi da un futuro “bruciato”.
Il dolore che attanaglia di fronte a Sweet Sixteen è quello
che nasce dal prendere atto della spirale occlusiva da cui Liam non
sembra aver possibilità di uscita, dal confrontarsi con un appassionato
amore filiale atrocemente spezzato, dal non avere parole, idee, risposte
per tamponare uno strazio sociale che non ha la retorica della fiction,
ma il lucido realismo di un dramma in immagini. Merito della perfetta
sceneggiatura di Loverty (premiata a Cannes), della solita, verace
regia di Loach, della straordinaria intensità dell’esordiente Martin
Compston (ha rinunciato alla carriera di calciatore per quella di
attore!), di un cinema dolente e commosso che nel dolce sarcasmo del
titolo, nelle trepidante tenerezza di Liam, nella sua veemente risolutezza
apre uno spiraglio, se non di concreto riscatto sociale per i protagonisti,
almeno di rinnovata presa di coscienza di noi spettatori. Nell’accorato
faccia a faccia di Loach con la disillusione e la brutalità dei suoi
non-eroi, l’unica vittoria possibile è forse quella, virtuale, della
nostra solidarietà. |