Sfruttamento
creativo. La “solita” storia sociale di
Ken
Loach
apre lo sguardo alle miserie dell’ipocrisia e della prevaricazione del
nuovo secolo, quelle legate alla instabilità del lavoro, alla
manodopera in nero (ossia principalmente extracomunitaria), della
precarietà interinale. Ciò che fa di
It’s a Free World…
un film “di genere” Loach è l’ennesima immersione nella sofferta
conflittualità civile della working class, quello che lo rende
straordinariamente vivo è, in primis, la profondità della ricerca sul
campo, della documentazione con cui il fido Paul Laverty approccia i
problemi e costruisce le sceneggiatura, poi la scorrevolezza con cui
Loach testimonia la realtà attraverso la fiction cinematografica, la
sicurezza con cui imbriglia il racconto e lascia libertà alla sua
protagonista (Kierston Wareing).
Angie, ragazza madre col piglio di chi vuol farsi strada ad ogni costo
(compreso quello di trascurare il figlio undicenne, lasciandolo a
balia dai nonni), supera lo smacco di uno sbrigativo licenziamento
(causa l’inesorabile meccanismo di una mobilità coatta abbinato alla
sua “inopportuna” ritrosia di fronte alle avances dei capi) mettendosi
in proprio: con l’amica Rose apre una sua agenzia di collocamento,
allestisce un alternativo ufficio open-air nel retro di un pub,
raccatta proletari immigrati (con o senza permesso di soggiorno),
tiene contatti con aziende pronte a bypassare le strettoie sindacali.
Il suo metodo di lavoro ha lo stesso suadente aplomb della sua
personalità: sorriso aperto, fisico prorompente (il suo modello è
Marilyn Monroe), Angie è una donna attraente, dinamica e spavalda.
Gira per Londra e dintorni su una Harley Davidson, affronta ogni
contratto con intraprendente competenza, sa infondere fiducia nei
poveracci, riesce a chiudere contratti vincenti (esentasse!) con
ambigui imprenditori.
Che tutto possa filare liscio, tra il cinismo di una flessibilità che
arricchisce solo chi tiene le redini del gioco e gli imprevisti buchi
di bilancio di affari che troppo si spingono oltre il limite della
legalità, è l’utopia aberrante di “un mondo libero”. La forza di
questo nuovo lavoro di Ken Loach sta anche nello spiazzante punto di
vista con cui cresce la narrazione. Angie è una protagonista in
negativo, ma l’urgenza del suo vissuto, la grinta al femminile con cui
subisce e fa subire le contraddizioni del presente, tendono a
delinearne un’umanità accattivante; ci sentiamo solidali con la sua
ansia di una sicurezza, così come ci troviamo spiazzati di fronte alle
angherie cui sono sottoposte le nuove classi lavoratrici: che dire
quando Angie arriva a mettere sulla strada intere famiglie di
extracomunitari, facendo sgomberare una baraccopoli solo per dare
alloggio a nuova manodopera abusiva? Se non riusciamo a non
angosciarci con lei quando la ritorsione degli sfruttati minaccia la
sua incolumità e quella di suo figlio, non è certo un lieto fine
quello che la vede di nuovo “sul mercato” a reclutare altri
sprovveduti lavoratori. Non possiamo non disapprovare Angie, non
possiamo non ammirare Loach.
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