Ogni
anno, alla
chiusura del Festival, pesano quasi di più le polemiche
sui premi assegnati che le emozioni per le opere presentate.
Beh, in
fondo le due cose coincidono, perché quando certi film appagano il
tuo giudizio critico non puoi che questionare quando li vedi
trascurati nelle scelte della giuria... Tanto vale quindi lasciarsi
coinvolgere e, senza particolari commenti, sbilanciarsi apertamente
nel mettere in campo una doppia classifica. Da una parte i più
eclatanti
riconoscimenti ufficialie dall'altra le proprie
corrispondenti indicazioni di preferenza.
A buon intenditor...
Viaggio a Tokyo è stata in tutta Italia, la sorpresa
dell'estate. A Padova la sorpresa si è prolungata con
il grande risposta alla retrospettiva Ozu: il suo cinema è
caratterizzato da tonalità di tristezza, di malinconico
disincanto, ripiegato com’è in una prospettiva di introspezione
esistenziale
>>
Dopo il successo di Die andere Heimat il Lux di Padova
ha riproposto
la prima serie
del capolavoro di Edgar Reitz: in quasi 16 ore di narrazione,
dalla fine della Grande Guerra ai giorni nostri, le storia
familiari di Schabbach, un villaggio immaginario nella regione
dell’Hunsrück. Un grande affresco attraverso cui la storia
tedesca contemporanea si rivela e prende corpo
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Solo due anni di vita e già il
cineforum Second Life
ha
cambiato identità. Addio alla verve "popolare" che recupera i
successi visti, rivisti (o vergognosamente perduti) della
stagione scorsa e avanti tutta con le quasi-novità che hanno
marginalmente (o per nulla) varcato lo spazio espositivo delle
sale padovane
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Il docu-film d'arte per riscoprire in sala esposizioni museali,
maestri della pittura... Un percorso unico e affascinante sul
grande schermo
>>
Riccione,
Sorrento, Mantova… Tra le
“location” delle vetrine della distribuzione cinematografica quella
emiliana ha certo il sapore del cinema di qualità. La
XV edizione degli INCONTRI DEL CINEMA
D’ESSAI ha confermato che le “sale” presenti hanno
un’attenzione particolare per il cinema di qualità e che in tal
senso il prodotto offerto da grandi e piccole distribuzioni cede
raramente alle sirene del cinema puramente commerciale.
Ciò
che si è visto al Multisala Ariston,
sia come film in anteprima (ottima la selezione), sia come
panoramica dei trailer è stato nella media di buon livello,
evidenziando come la politica degli autori non sia una banale
etichetta, ma una boa di riferimento per chi intenda il cinema come
fatto culturale. Ed è infatti questo lo spirito che da sempre anima
la FICE (Federazione Italiana
Cinema d’Essai) e il suo presidente Domenico Dinoia l’ha ribadito
anche dirigendo il convegno. Le voci e i pareri sono state forse
ovvi ma necessari a puntualizzare l’attuale situazione, ben
inquadrata dai dati presentati nella ricerca (da Cinetel)
elaborata da Mario Mazzetti:
●
gli incassi afferenti alla programmazione dei 15 film
vincitori delle ultime 5 edizioni dei 3 maggiori festival
internazionali (Berlino, Venezia e Cannes) hanno sfiorato i 13
milioni di euro, 10 dei quali sono sotati realizzati nelle
sale d’essai, vale a dire l’80%. ●
l’incidenza di circa il 50% va alle sale d’essai anche per i
30 milioni di euro incamerati da un campione di 18 film
italiani di qualità usciti negli ultimi 12 mesi. ●
resta in quest’ottica la debole
componente che rappresenta il cinema italiano la cui quota di
mercato è scesa dal 26% dell’anno scorso al 18%
Sul
palco hanno dialogato Valerio De Paolis della recente distribuzione
Cinema, Carlo degli Esposti (Palomar) Francesco Melzi
D’Eril della Good Films, Mariella Troccoli del MiBACT,
Sonia Ragone (Europa Cinémas), Gianluca Farinelli direttore
della Cineteca di Bologna, il presidente ANEC Luigi
Cuciniello… Un po’ ripetitivi (e inconcludenti?) i temi affrontati:
la quantità (troppi?) e la qualità (spesso mediocre) dei film
italiani prodotti, il cruccio della proposta estiva, la ripartizione
(poco ponderata) dei fondi statali e il numero forse eccessivo delle
sale riconosciute d’essai. La voce dalla platea di Lorenzo Fantoni
esercente del cinema Eden di Treviso (e uno dei fondatori
della FICE), ha provato a far emerge il nodo dello sbilanciato
rapporto di forza tra gli esercenti e i distributori (esosi e
propensi ai dictat), ma ormai il convegno era in chiusura… Resta
l’impressione che solo chi lavora in prima persona “sul campo” possa
aver ben chiare problematiche davvero urgenti e soluzioni
auspicabili. Ma in struttura sempre troppo burocratiche e
verticistiche quando ci potrà essere un vero ascolto e una proficua
riflessione comune?
Non
più Festival ma FESTA DEL CINEMA
di Roma. Sta in
questo cambio di denominazione la chiave per comprendere il nuovo
corso della rassegna romana diretta da Luigi Monda. Accettata
l’impossibilità di competere con Cannes e Berlino (a distanza
siderale) e con lo spirito di eliminare i sospetti di una
concorrenza in qualche modo sleale con Venezia, si torna "alle origini",
a come l’aveva pensata Veltroni-sindaco 10 anni
fa. Preso poi atto del taglio di fondi da 4 a 2 milioni ecco la
necessità di una decisa sterzata ritornando alla formula originale:
abolito il concorso con giuria e premi, “demondanizzato” il
tappeto rosso, la kermesse capitolina si è trasformata
in una grande vetrina diffusa sul territorio, con sono sale in ogni
quartiere della città, arrivando fino ad Ostia (d’altronde tornata
di moda: Suburra,
Non essere cattivo, l'anniversario della morte di Pasolini...).
Poche "prime mondiali" eccezion fatta per il
"canonico" film con Julianne Moore (Freeheld)
e, naturalmente, per i prossimi film italiani in uscita (i modelli
sono il Festival di Londra e la Viennale).
Alta comunque la qualità generale con tre splendidi titoli
provenienti da Toronto, Room
di Lenny Abrahamson, Mistress America,
di Noel Baumbach, Truth
di James Vanderbilt e alcune chicche da far venire da far
venire
l’acquolina in bocca alla vasta schiera dei patiti seriali:
Fauda, dell’israeliano
Assaf Bernstein, e le prima due puntate della seconda serie di
Fargo. Inoltre una
memorabile sequenza di incontri-conferenze
(accompagnati da filmati ad hoc) con la presenza di personaggi del
livello di Todd Haynes, Sorrentino, Joel Coen e consorte, Jude Law.
Da segnalare infine
l’eccellenza assoluta la sezione Alice nella città, cinema dei
giovani per i giovani (è quasi auspicabile un festival a parte) a
cui si devono le migliori sorprese da
Grandma di Paul Weitz a The
Wolfpack, da Une enfance
fino al vincitore, Vier Könige.
In complesso quindi un successo, nonostante un afflusso di pubblico
all’apparenza inferiore alle stagioni passate.
E poi c’è l’aria di Roma, che è sempre un bel vivere.
Giovanni Martini
(e.l.) Ci
sono bachi culturali che sedimentano talvolta nella memoria.
Aspettando l'inizio del concerto di Steve Hackett
al Geox di
Padova(24
settembre 2015), mi domandavo quale "song" dei
Genesis mi sarebbe più
piaciuto riascoltare nell'esibizione dello storico chitarrista del
gruppo. E mentre
Hackett "scaldava" il pubblico con brani della sua
produzione da solista (Spectral Mornings,
Wolflight, Every Day,
Love Song To A Vampire,
Star of Sirius...) mi sono reso conto che
nella mia alternativa di preferenza tra Looking for Someone (Trespass)
e The Musica Box(Nursery
Crime) c'era un vizio di forma (e di ricordo): non era solo
Phil Collins che era arrivato come new entry a sostituire John Mayhew
nel 1971; anche Steve Hackett non faceva parte della band ai tempi di
Trespass (c'era Anthony
Phillips!). Dimostrazione ulteriore del "genesis touch", uno stile che
si è perpetuato per almeno cinque album creando atmosfere ed emozioni
davvero uniche.
È stato così un piacere partecipare al grande
entusiasmo che ha accompagnato l’arrivo sul palco di
Nad Sylvan
(camicia bianca con volant, chioma bionda fluente, portamento “dandy”)
grazie alla cui voce hanno preso vita brani indimenticabili come
Get 'Em Out by Friday,
Can-Utility and the Coastliners,
Dancing with
the Moonlit Knight, The Cinema Show,
The Lamb Lies Down On Broadway,
Firth Of Firth (nel bis)… Il momento topico è stato però quando Sylvan ha intonato “Play me Old King Cole”.
The Musical Box,
nel fascino della sua lunghezza, ha dato modo a tutta la band di
mostrare il suo valore e ad Hackett di evidenziare la sua preziosa
capacità di farsi leader e comprimario a seconda delle situazioni
sonore. Il sessantacinquenne chitarrista ha saputo dar modo ai singoli
componenti (Roger King - tastiere, Gary O'Toole - batteria,
Rob Townsend - sax, Roine Stolte - basso) di esibire le proprie (alte) professionalità in
significative parentesi soliste, ma la sua presenza al centro del
palco è stata sempre di riferimento; e quando la sua Gibson ha preso
spazio i riflettori dell’emozione sonora sono stati tutti per lui.
I
suoi splendidi assoli sono stati momenti “magici” di una repertorio
che resta storicamente legato ai primi anni ’70, ma che ancor oggi sa
suscitare una forte “nostalgia” empatica.
(e.l.) Venice
Music Project, Andrea di Robilant, A Venetian Affair…
Nomi e titoli forse sconosciuti ai più, ma corrispondenti ad una
realtà culturale, ad un ambizioso progetto che parte da
un’associazione (Venice Music Project) che “nel condividere la gioia della musica, promuove e sostiene
il restauro della
Chiesa di San Giovanni Evangelista
e delle opere in essa custodite" Ecco, il nome della chiesa
aiuta a identificare “il progetto”: siamo a Venezia , in Campo San
Polo, dove, per la concretizzazione dell’obiettivo si organizzano
concerti e performance artistiche. Quella di ottobre (quattro
serate, due in lingua inglese, due in italiano) era appunto
A Venetian Affair,
storia tragico-romantica dell’amore tra Andrea Memmo e Giustiniana
Wynne. Il tutto narrato in prima persona dall’autore (Andrea
di Robilant) in un cornice dal fascino antico (regia e
scene di Barbe & Doucet) e con
l’accompagnamento della piccola orchestra
Venetia Antiqua con il
soprano Liesl Odenweller. Oltre
due ore di recitativo, rilettura di antiche lettere, brani di
Antonio Vivaldi, Johann Adolf Hasse, Alessandro Marcello per mettere
inscena la triste istoria di Andrea e Giustiniana, innamorati fin da
giovanissimi, costretti ad un rapporto segreto dalle rigide regole
della Serenissima di tre secoli fa, travolti da affari di
concubinaggio e progetti matrimoniali non andati a buon fine.
Un’esperienza culturale-artistica, quella di A Venetian Affair,
davvero originale, con un pregio su tutti: quello di aver accompagno
il pubblico in un breve viaggio fuori dal tempo nella Venezia del
1700, tra fogli spiegazzati,
facsimile delle vecchie lettere,
e le coreografie barocche allestite nella Chiesa. Lo spettacolo
ormai “è andato”; la Chiesa di San Giovani Evangelista resta, con i
suoi splendidi dipinti (Tintoretto!).
Una visita che merita.
(m.c.n.s)
Dopo il grande successo di
Roma al Chiostro del Bramante ed a Palazzo Albergati di Bologna, la
mostra dedicata a Maurits
Cornelis Escher approda aTreviso (dal 31 ottobre)
con il patrocinio del Comune, prodotta ed organizzata da
Arthemisia Group (in collaborazione con la M.C. Escher
Foundation) e curata ancora da Marco Bussagli e dal
collezionista Federico Giudiceandrea.
Il percorso espositivo della mostra propone interessanti confronti,
un percorso originale di nascita dell’arte di Escher, il suo vivere
in Italia per 13 anni – un lungo ‘gran educational tour’
ultra-stendhaliano durato dal 1922 al 1937. Aveva avuto un grande
maestro, l’Ebreo sefardita Samuel Jesserum de Mesquita, quello che
lo aveva introdotto alla sua futura professione, dato vita alla sua
carriera e, soprattutto, gli aveva istillato la passione della sua
vita, il disegno, l’incisione, un tipo di ‘arte scientifica’ che
strabilierà gli scienziati ortodossi. Disegnava per istinto poi, al
contrario, le sue opere si svelarono come opere di profonda
scientificità, pieni di segni…pre-monitori, davvero d’eccezione, per
un artista del suo genere, autentiche ‘lezioni’ per docenti della
materia.
Presenti in mostra le prime opere a carattere geometrico, di cui
alcune nate con l’intento quasi didattico di spiegare i metodi di
tassellazione e la derivazione dai mosaici dell’Alhambra, arrivando
poi ai capolavori oggi noti a tutti gli appassionati, ma anche opere
rare a vedersi.
Alla prima categoria appartengono la celebre Mano
con sfera riflettente realizzata proprio nello studio della
palazzina di via Poerio a Roma, dove Escher progettò anche la
decorazione pavimentale di cui è possibile ammirare quattro
mattonelle originali.
Non manca ovviamente quel capolavoro che è Metamorfosi II -
di certo una delle più lunghe incisioni mai realizzate - esteso su
quasi quattro metri: un capriccio intellettuale, dove una forma
finisce per trasformarsi nell’altra, in una rincorsa circolare che,
partendo dalla parola «metamorfosi», con questa stessa si conclude.
All’origine c’è la parola metamorphose: essa, presto, diventa una
scacchiera dalla quale emergono dei lucertoloni che si trasformano
in esagoni regolari e poi in arnie, dalle quali escono delle api che
diventano gli uccelli, che a loro volta cedono il passo a dei pesci,
che quindi si trasformano in poliedri dai quali nasce un paese, con
una torre che si affaccia sul mare, che presto ridiventa una
scacchiera, in un percorso ellittico di mutazione.
Una mostra che si presenta come uno splendido iter per immagini, la
storia di una grande vita d’Artista degna d’essere vissuta.
(m.c.n.s)
A cento anni dalla loro
creazione tornano a Ferrara
i rari capolavori metafisici che Giorgio de
Chirico dipinse a
Ferrara tra il 1915 e il 1918, gli anni del Primo Conflitto
Mondiale. Una mostra, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte
e dalla Staatsgalerie di Stoccarda (in collaborazione con
l’Archivio dell’Arte Metafisica) e curata da Paolo Baldacci e Gerd
Roos, che celebra questa importante stagione dell’arte ferrarese e
poi italiana e documenta la profonda influenza che queste opere
ebbero in quegli anni su Carlo Carrà e Giorgio Morandi, e poco dopo
anche sulle Avanguardie Europee del Dadaismo, del Surrealismo e
della Nuova Oggettività.
Quando l’Italia entra in guerra, de Chirico e suo fratello Alberto
Savinio lasciano Parigi per arruolarsi e alla fine di giugno del
1915 vengono assegnati al 27° Reggimento Fanteria di Ferrara. Il
soggiorno nella città emiliana determina cambiamenti profondi, tanto
nella pittura di Giorgio e nei temi ispiratori dei suoi quadri
quanto nelle creazioni di Alberto, che a Ferrara abbandona
decisamente il primo amore ereditato dai geni di casa, la Musica,
per dedicarsi solo alla scrittura. Travolto dalla bellezza ieratica
e misteriosa della Città Estense, avvolta nelle sue languide nebbie,
De Chirico, creando una nuova semantica, una nuova cifra stilistica
insomma una nuova filosofia di arte e di vita, la rende protagonista
di alcuni dei suoi più famosi dipinti, nei quali il Castello Estense
o le grandi piazze deserte e senza tempo, riprese
cinematograficamente da Michelangelo Antonioni, alcuni anni più
tardi, divengono pura magìa.
Con capolavori quali I progetti della
ragazza (1915), Il grande
metafisico (1917), Le Muse
inquietanti (1918), la mostra, la prima in senso assoluto
dedicata all’indagine e all’approfondimento delle peculiarità
artistiche e culturali di questo periodo cruciale per l’arte
italiana ed europea, presenta la più completa rassegna che si sia
mai potuta vedere dei capolavori dipinti da de Chirico e Carrà nel
1917 a Villa del Seminario, l’ospedale psichiatrico militare per la
cura delle nevrosi di guerra – poi divenuto un istituto di recupero
e di rieducazione, ancor oggi - dove i due artisti furono ricoverati
nella primavera-estate del 1917 sviluppando un intenso sodalizio di
lavoro. Così
per la prima volta, dopo quarantacinque anni si potranno vedere
allestiti, uno accanto all’altro, gli originali dei
grandi manichini
di Giorgio de Chirico del 1917-18 insieme con la serie quasi
completa delle opere metafisiche di Carrà:
da
Il gentiluomo ubriaco
a
Solitudine
e
L’idolo ermafrodito,
per non citarne che alcune.
Presenti anche opere di Giorgio Morandi, Filippo de Pisis (il primo
e più fedele compagno ferrarese di De Chirico) ed una serie
importante di lavori di Man Ray, Raoul Hausmann, George Grosz, René
Magritte, Salvador Dalí e Max Ernst, che realizzarono straordinari
capolavori ispirati ai temi e alle iconografie ferraresi di de
Chirico e di Carrà.
Da segnalare come il percorso espositivo, che comprende circa
ottanta opere provenienti dai principali musei e collezioni di tutto
il mondo, diverrà itinerante, trovando una seconda sede,
successivamente, alla Staatsgalerie di Stoccarda.
A Padova, nella splendida
cornice di Palazzo Zabarella, è da non perdere l'antologica dedicata
a
Giovanni Fattori che
ben evidenzia l’eclettismo di un artista in grado di sperimentare,
nel suo lungo e crescente iter creativo, i generi più diversi.
L’esposizione, dal taglio cronologico e tematico (curatori Francesca
Dini, Giuliano Matteucci e Fernando Mazzocca) mette in mostra oltre
cento dipinti, dall’Autoritratto del 1854 agli ultimi lavori
eseguiti agli inizi del Novecento e durerà fino al 28 marzo del
2016.
Le doti di Fattori (Livorno, 1825 - Firenze, 1908) si erano rivelate
piuttosto tardi, quando, superati i trent’anni, aveva partecipato
alle animate serate del Caffè Michelangelo, a Firenze il
palcoscenico della cosiddetta rivoluzione della “macchia”. Si
chiamavano, infatti, Macchiaioli, per una sorta di irridente
‘sfottò’ ai noti e più ‘ieratici’ Impressionisti, meno convinti di
loro di creare una rivoluzione en plein air nell’arte (a quel
periodo appartengono i piccoli formati delle leggendarie tavolette,
come La rotonda di Palmieri, che
qui si possono apprezzare). Tra quegli artisti ancora in fieri era
anche il giovanissimo Giovanni Boldini che aveva appena lasciato la
nativa Ferrara per dare inizio ad una carriera fortunatissima che lo
porterà ai fasti ed agli amori borghesi e senza fine della Ville
Lumière. Ma Fattori era più sensibile ai mutamenti sociali:
passava, infatti, con facilità, dal paesaggio, al ritratto, alle
cronache della storia contemporanea, dove fu testimone di un’epoca,
alle scene di vita popolare, dove seppe condividere gli stati
d’animo ed i problemi più drammatici di un’umanità sempre più in
fermento ed in crescita. Ed è proprio nelle opere ‘in grande’ (quasi
teleri), in cui la dimensione epica riflette i mutamenti storici e
sociali che andavano trasformando il Bel Paese, che ancora traspare
l’anima dello sperimentatore Fattori il quale approda, pian piano,
ad un’arte antesignana, premonitrice, quella che lo avvicina
all’ultimo Cézanne, ma che pur lo lascia indenne, puro nella sua
originale personalità, quella che si ravvisa nei drammatici
capolavori della maturità, come Il muro
bianco(In vedetta) o Lo
staffato, espressi con un linguaggio che va oltre la
dimensione della denuncia per raggiungere una prospettiva
universale.
Da sottolineare, in chiusura, come l’esposizione di Palazzo
Zabarella offra anche il nocciolo dell’arte di Fattori, la sua
produzione grafica, grazie ad una sezione formata da una decina di
acqueforti incise su zinco. Il tutto ben illustrato e commentato nel
ricco, tradizionale catalogo Marsilio.