Il
cinema di
Bellocchio
non risponde mai a convenzioni, non ha agganci, rimandi esterni: è
solo e semplicemente il cinema di Bellocchio. Trova solo da sé e in sé
i suoi riferimenti e le sue energie. In epoca di sceneggiature
sofisticatissime nello scomporre e ricomporre le parti del racconto,
sempre però secondo criteri di verosimiglianza, il settantenne
Bellocchio in questo film ha la giovanile sfrontatezza di mandare
all'aria gli schemi e la libertà di spezzare le strutture, con una
leggerezza narrativa e un'ironia graffiante, che non possono non
sorprendere lo spettatore, generando reazioni contrastanti, di
entusiasmo, come in chi scrive o di fastidio soprattutto in chi ha
dimenticato il vecchio predicato che richiede allo spettatore la
“sospensione dell'incredulità”.
Diviso in due parti da uno stacco così netto da diventare
impercettibile
Sangue del mio sangue
parte dal passato, dall'ambiente claustrale seicentesco, dove una
monaca accusata di aver sedotto un prelato viene murata viva, per
passare, una volta rinchiusa dietro un muro la passione, ad un
presente abitato da vampiri, da oscure consorterie, da morti che
comandano su folli sbandati, da personaggi dai nomi significativi: il
conte “Basta”, il dottor “Qualunque”, oltre a Federico “Mai”, ma anche
da speranze inattese, da svolte inaspettate, capaci di cambiare
all'improvviso il tono e l'atmosfera.
A nulla serve sottolineare che si tratta di due film realizzati a tre
anni di distanza l'uno dall'altro (il primo nasce infatti come un
corto, dal titolo La monaca di Bobbio,
nell'ambito dei laboratori di “Fare cinema”, che Bellocchio organizza
a Bobbio con giovani aspiranti cineasti) e cercarne i legami più o
meno evidenti. Il film è sangue del sangue di Bellocchio e si nutre
dei suoi temi, delle sue ossessioni: l'oscurantismo della chiesa, lo
strapotere democristiano, la forza eversiva della passione, il suo
cinema precedente, la sua famiglia (interpretato dal figlio Pier
Giorgio e dalla figlia minore Elena) i suoi attori (Herlitzka, Timi),
i suoi studenti e soprattutto Bobbio, attorno a cui ruota tutto il suo
mondo. Tutto parte da lì e torna lì, al luogo originario, alle sue
asfissie e alle sue spinte dirompenti. E davvero sembra che Bellocchio
voglia portarsi dietro tutto il suo vissuto, i luoghi, le cose, i film
fatti, le persone che li hanno abitati e continuano ad abitarli. Ma
non come fossero un peso morto: semplicemente ritrovando in essi
l'origine di un’ispirazione creatrice inarrestabile.
È ciò che spiega l'impressione di freschezza e leggerezza di un film,
che sembra fatto da un ventenne: Bellocchio è un regista giovane
proprio perché ha scoperto che la maturità e la vecchiaia non
intaccano le forze più intime, più segrete, più vitali. “Voglio
semplicemente accarezzare, proteggere, guardare” spiega il vecchio
conte Basta (un sempre splendido Herlitzka) al suo assistente, che gli
rimprovera le eccessive attenzioni dimostrate nei confronti di una
giovinetta. Lo spirito vitale è sempre vivo, sempre in movimento: non
c'è prigione, regola, convenzione che lo trattenga: il diavolo è
sempre in corpo.
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