Nel
perfetto componimento del quadro emotivo di riferimento di un film,
il piano formale costituisce talvolta il motore e il cardine di un
movimento interno che pervade l'estetica e la sintesi di un
frammento narrativo qual è in definitiva il titolo che si antepone e
identifica nel tempo l’atto stesso della visione.
La calle de la amargura
infatti si immerge direttamente in uno spazio dai contorni
espressivi delineati, marcati e intensamente seducenti: un ambiente
ristretto - una strada, o meglio, un piccolo luogo di passaggio con
delle apparenti vie di fuga - rappresentativo di un mondo relegato
ai margini, dai bordi occultati e il cui destino è nel segno
semanticamente predestinato al tormento di un fantasma irrisolto.
Quell’amarezza appunto, pungente, acre e sventurata che transita le
vite di personaggi a cui non è permesso mai di ricoprire il ruolo
principale, eternamente comprimari e subordinati verso una
competenza che appartiene loro solo a metà o icone di un inane
tramonto della bellezza forse solamente sognata: una coppia di nani
lottatori e una di attempate prostitute legate tra loro da un
miserabile destino, una megera, papponi, un marito travestito da
prostituta e una ragazzetta avida e meschina.
La duplicità per il cineasta messicano è il gioco dolce e dolente del destino: ogni personaggio appare come il rimbalzo deformato di un altro, protetto da una maschera più o meno evidente che decreta il ripetersi infinito della finzione come naturale espressione del reale. I due antieroi lillipuziani, spalle miniaturizzate di lottatori più grandi e famosi, con il viso sempre avvolto dal costume di scena (anche per mangiare, dormire e fare sesso), riflettono tutta l’ambiguità e la violenza dell’enigma di cui essi sono proiezione. Un riverbero ruvido, buffo e pieno d’amore. |
Alessandro Tognolo - novembre 2015 - pubblicato su MCmagazine 38 |