“Every love story is a ghost story" (Ogni storia
d'amore è una storia di fantasmi): la citazione dell'amico David Foster Wallace, che la Anderson dice di usare come un mantra, è una
sintesi perfetta di ciò che è questo film. Perché è d'amore e di morte che esso parla e
perché è anche il
racconto di tante storie, attraverso le quali lo spettatore è guidato
dallo sguardo che corrisponde alla bellissima voce della narratrice.
L'amore innanzitutto per la cagnetta Lolabelle, per il marito Lou Reed,
per la madre, per gli amici Foster Wallace e Gordon Matta-Clark, per
Wittgenstein e Kierkegaard, rievocati con mezzi diversi: riprese dei
vagabondaggi nel Village e in campagna con Lolabelle, immagini di una
performance di “separazione” architettonica di Matta-Clark, filmini in
super8 girati dai fratelli con la madre, la voce di Lou Reed che canta
la bellissima canzone d'amore Turning Time Around in chiusura del
film e poi soprattutto la voce di Laurie, che, raccontando le sue
tante storie, cita gli amici, i maestri, il “Libro Tibetano dei
Morti”.
L'idea dell'amore porta con sé inevitabilmente quella della
separazione, della perdita, su cui la Anderson riflette, parlandoci
del concetto buddista del Bardo, cioè di quel momento di passaggio tra
la morte e la reincarnazione, una sorta di dimensione sospesa che dura
49 giorni, in cui la coscienza del defunto, staccatasi dal corpo, deve
in qualche modo confrontarsi con tutti i legami della sua vita passata
e liberarsene.
La Anderson vuole in questo modo contrapporsi al mondo che la
circonda, un mondo che preferisce esorcizzare l'idea della morte,
rimuovendola o vivendo nel terrore di essa, come dopo l'11 Settembre,
e lo fa in particolare attraverso due racconti: quello in cui oppone
uno sdegnato rifiuto alla proposta del veterinario, che suggerisce
l'iniezione letale per Lolabelle, perchè non senta dolore e abbia una
morte veloce e quello bellissimo in cui rievoca la fine di Gordon
Matta-Clark, l’artista che squarciava i palazzi, per raccontare forse
i suoi drammi e le sue tragiche ferite. Morte che fu un “evento
sociale”, un ultimo istante di condivisone, con al lato due monaci
tibetani ad accompagnarlo, ad urlargli nelle orecchie, perché l’udito
è l’ultimo senso a spegnersi. Il martello del timpano continua a
vibrare… e quindi parole e musica resistono ben oltre l’immagine.
E infatti l'intero film risulta una sorta di partitura di immagini,
suoni e parole, capaci di trasformare la visione in un viaggio
interiore partecipato.
Si snoda come un flusso di coscienza, che spazia tra idee
apparentemente distanti, ma connesse, fondendo insieme i linguaggi
dentro una scansione ritmica perfetta. È un film che vuole fortemente dire delle cose e che usa la potenza
del cinema per trasmetterle, ma rispetto ad altri film di questo
genere, la Anderson fa qualcosa in più: sottomette la visione alla
parola e con ciò si permette di lavorare sulle immagini come fa con i
suoni, manipolandole, graffiandole, assemblandole, sporcandole con
filtri di ogni tipo, come fossero i resti di un enorme archivio della
memoria da ricostruire, in bilico tra la concretezza del vissuto e
l'invenzione fantastica, fra la forza dei sentimenti e la necessità di
una distanza. Quasi come se la visione costituisse un supporto su cui
poggia la riflessione e che anzi la alimenta, nell'elaborazione di un
lutto, mille lutti, attraverso lo sforzo di una prosa poetica che
tocca mente e cuore, senza dover necessariamente passare prima dagli
occhi.
È infatti la voce di Lou Reed, il fantasma più grande di questo
Bardo, che, a film finito, dopo l'ultima inquadratura in cui le sue
orme si perdono sulla spiaggia e lo si vede abbracciato a Lolabelle,
ci accompagna fuori, sulle note di Turning Time Around. È lui che
aleggia dappertutto e la sua voce continua a vibrare.
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