Heart of a Dog
Laurie Anderson - USA 2015 - 1h 15'

VENEZIA 72 - Concorso

    “Every love story is a ghost story" (Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi): la citazione dell'amico David Foster Wallace, che la Anderson dice di usare come un mantra, è una sintesi perfetta di ciò che è questo film. Perché è d'amore e di morte che esso parla e perché è anche il racconto di tante storie, attraverso le quali lo spettatore è guidato dallo sguardo che corrisponde alla bellissima voce della narratrice.
L'amore innanzitutto per la cagnetta Lolabelle, per il marito Lou Reed, per la madre, per gli amici Foster Wallace e Gordon Matta-Clark, per Wittgenstein e Kierkegaard, rievocati con mezzi diversi: riprese dei vagabondaggi nel Village e in campagna con Lolabelle, immagini di una performance di “separazione” architettonica di Matta-Clark, filmini in super8 girati dai fratelli con la madre, la voce di Lou Reed che canta la bellissima canzone d'amore Turning Time Around in chiusura del film e poi soprattutto la voce di Laurie, che, raccontando le sue tante storie, cita gli amici, i maestri, il “Libro Tibetano dei Morti”.
L'idea dell'amore porta con sé inevitabilmente quella della separazione, della perdita, su cui la Anderson riflette, parlandoci del concetto buddista del Bardo, cioè di quel momento di passaggio tra la morte e la reincarnazione, una sorta di dimensione sospesa che dura 49 giorni, in cui la coscienza del defunto, staccatasi dal corpo, deve in qualche modo confrontarsi con tutti i legami della sua vita passata e liberarsene. La Anderson vuole in questo modo contrapporsi al mondo che la circonda, un mondo che preferisce esorcizzare l'idea della morte, rimuovendola o vivendo nel terrore di essa, come dopo l'11 Settembre, e lo fa in particolare attraverso due racconti: quello in cui oppone uno sdegnato rifiuto alla proposta del veterinario, che suggerisce l'iniezione letale per Lolabelle, perchè non senta dolore e abbia una morte veloce e quello bellissimo in cui rievoca la fine di Gordon Matta-Clark, l’artista che squarciava i palazzi, per raccontare forse i suoi drammi e le sue tragiche ferite. Morte che fu un “evento sociale”, un ultimo istante di condivisone, con al lato due monaci tibetani ad accompagnarlo, ad urlargli nelle orecchie, perché l’udito è l’ultimo senso a spegnersi. Il martello del timpano continua a vibrare… e quindi parole e musica resistono ben oltre l’immagine.
E infatti l'intero film risulta una sorta di partitura di immagini, suoni e parole, capaci di trasformare la visione in un viaggio interiore partecipato. Si snoda come un flusso di coscienza, che spazia tra idee apparentemente distanti, ma connesse, fondendo insieme i linguaggi dentro una scansione ritmica perfetta. È un film che vuole fortemente dire delle cose e che usa la potenza del cinema per trasmetterle, ma rispetto ad altri film di questo genere, la Anderson fa qualcosa in più: sottomette la visione alla parola e con ciò si permette di lavorare sulle immagini come fa con i suoni, manipolandole, graffiandole, assemblandole, sporcandole con filtri di ogni tipo, come fossero i resti di un enorme archivio della memoria da ricostruire, in bilico tra la concretezza del vissuto e l'invenzione fantastica, fra la forza dei sentimenti e la necessità di una distanza. Quasi come se la visione costituisse un supporto su cui poggia la riflessione e che anzi la alimenta, nell'elaborazione di un lutto, mille lutti, attraverso lo sforzo di una prosa poetica che tocca mente e cuore, senza dover necessariamente passare prima dagli occhi.
È infatti la voce di Lou Reed, il fantasma più grande di questo Bardo, che, a film finito, dopo l'ultima inquadratura in cui le sue orme si perdono sulla spiaggia e lo si vede abbracciato a Lolabelle, ci accompagna fuori, sulle note di Turning Time Around. È lui che aleggia dappertutto e la sua voce continua a vibrare.

Cristina Menegolli - ottobre 2015 - pubblicato su MCmagazine 38

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