COM'ERA ROCK LA MIA AMERICA

  Non so cosa mi avesse sempre trattenuto dall'approccio cinematografico con L'ultimo valzer di Scorsese, forse il timore di assistere ad un inopinato scivolone del regista di Mean Streets e Taxi Driver o al naufragio di un altro concerto rock sul grande schermo, dopo le fumose esibizioni in celluloide di Emerson, Lake & Palmer e simili. Certo so cosa mi ha spinto senza esitazioni a tuffarmi nella sala buia per la proiezione di Hair di Forman: il desiderio di percepire in immagini l'atmosfera vibrante e liberatoria che da anni (1968) le frasi musicali del disco omonimo riescono ad evocare.
Sta di fatto che le due pellicole le ho sensorialmente immagazzinate quasi in contemporaneità e per entrambe c'è stato in me un sussulto emotivo che ha fuso il giudizio cinematografico al riascolto sonoro. É difficile avvicinarsi a questi due lavori senza un prioritario bagno partecipativo nella musica e nella cultura rock, ma è altrettanto difficile gustarli digiuni del background filmico che sostiene e porta a realizzazione le opere di due autori come Martin Scorsese e Milos Forman.
Cominciamo con
L'ultimo valzer (The Last Waltz - 1978): il film é la registrazione del concerto d'addio (Winterland Arena San Francisco - 25 novembre 1976) di uno dei più importanti gruppi rock americani, The Band, famosa per i più per aver spesso accompagnato Bob Dylan, ma pure splendente di luce propria con un'intensa attività sia discografica che di concerti, con successi quali The Night They Drove Old Dixie Down e Stage Fright 1.
All'esibizione live di Robbie Robertson, Rick Danko, Richard Manuel, Levon Helm e Garth Hudson si alternano alcune sequenze di brani in studio (con The Staples, Emmylou Harris e per l'esecuzione del valzerone che dà il titolo al film) ed una serie di interviste coi cinque protagonisti: il tutto per la regia di Martin Scorsese.
Ora le domande che sqrgono sono due: perché un prodotto del genere diretto da un autore come Scorsese? E quale, alla resa dei conti, il risultato? Va subito detto allora che la resa cinematografica è impeccabile. I perfezionismi a livello tecnico (un eccezionale staff di operatori - Laszlo Kovacs, Vilmos Zsigmond, David Myers... con un direttore della fotografia del calibro di Michael Chapman) sono solo l'avvio per capire un film in cui chi parla, anzi chi suona non è questo o quel cantante ("ospiti della serata" sono rock-star come Dr. John, Neil Young, Joni Mitchell, Ringo Star, Neil Diamond, Bob Dylan e altri) quanto la musica e quanto a certa musica sta sotto. Quasi tutte le due ore abbondanti di proiezione vivono sul palco - il pubblico non si vede, si sente solo come realtà incombente (se non per un brulicare di mani acclamanti che si intrufolano a corredo dello show dell'unica star non americana, Eric Clapton. Un'ironia sul rapporto musica-pubblico tra i due paesi di lingua anglosassone?) e l'essenzialità del montaggio e gli scarni movimenti di macchina (giusto due, tre carrelli in laterale e un intreccio di calibratissime zoomate) rendono la tensione della presenza in loco, della partecipazione alla sagra socio-culturale non solo con1'orecchio ammaliato ma pure, parallelamente, con l'occhio coinvolto in una critica analisi d'insieme. I volti degli esecutori, gli strumenti che essi manovrano, il rapporto viscerale che lega, nel rock, uomo e mezzo (uno dei più saldi, creativi e "non alienanti" dell'era moderna) fanno da tasselli di un'esplosione sonora e cromatica che é l'asso vincente della tradizione live della pop-music e sono al contempo ulteriori innesti evolutivi nel discorso cinematografico scorsesiano, che fa eco alle tendenze cine-musico-culturali dell'America '68-'78.
Bisogna qui ricordare che Scorsese fu montatore del mitico Woodstock (1970) e che il suo interesse per il fenomeno musicale USA si era già palesemente manifestato in quel capolavoro nostalgico-critico che è New York New York (1977). A ciò va aggiunta la considerazione di come la sua auto-detronizzazione da apogetico regista a sobrio intervistatore sia già in atto dal 1975, con l'inizio delle riprese familiari di ItalianAmerican (American Scrapbooks - 1979): solo in questa apertura di osservazioni si arriva meglio a comprendere l'humus e la struttura di L'ultimo valzer. Le interviste-confessioni dei cinque della Band (tutte notevolmente amare ed esistenzialmente sullo squallido) sono quasi una superflua puntualizzazione verista. Scorsese si lascia trasportare dal flusso nostalgico di New York New York e, come ci mostrava con affetto il De Niro "caldo" nella serata jazz del locale negro, così qui si inebria al ritmato blues di Muddy Waters ed ai sorrisi sudati di Robbie Robertson.
Ma quanta e quale acqua è passata, per Scorsese e per i giovani americani) dai gloriosi tempi di Woodstock? I Il rock ha continuato ad urlare gli assoli delle sue viscere, ma la coscienza culturale che lo accompagnava ha perso "the tune" per strada. All'arena di San Francisco Neil Young ancora canta una Helpless ormai fuori tempo, Van Morrison si agita come un contadinotto intrufolatosi senza permesso e il magico incontro tra l'incalzare dei suoni elettrici ed il fermento di protesta dei campus, tra l'acido e stimolante impatto sonoro e la corposità costruttiva dei movimenti alternativi, sembra aver perso la rotta dell'equilibrio e sbilanciarsi più verso una caotica strumentalità che verso il rabbioso contorcersi di una generazione in fermento. Solo Joni Mitchell
2, nell'aura dell'acustico, pare ergersi ad anima pura di uno spettacolo "confessionale" ormai ambivalentemente illusorio (e per il pubblico e per l'autore) e intanto Dylan sembra sogghignare, tra riccioli e cappellaccio, mentre insegna a tutti la saggezza e la furbizia dell'autocritica: Forever Young ("per sempre giovane") langue la sua voce, I shall lbe released ("sarò liberato'') intonano tutti insieme (The Band e ospiti) sul palco. Nel confronto tra le profetizzanti parole del Dylan fine anni 60:"1 see the light come shining / from the west unto the east / any day nowany day now/ I shall be released" 3 e le languide note del brano conduttore della Band The Last Waltz non c'è solo nostalgia, c'è soprattutto il rimpianto per ciò che doveva essere e non è stato, per un "ultimo valzer" ballato sulle teste degli ingenui, per un "sarò liberato" sempre meno futuribile e più tristemente utopico.
Eppure, sembra canticchiare Forman, qualcosa di diverso, di nuovo, é ancora, è sempre nell'aria e se "i padroni della guerra"
4 hanno giocato e giocano sfrontatamente i loro puzzle di morte, la ventata di esuberanza che gonfiò la vela degli anni '60 può forse ancora muovere qualche foglia, se non con la rabbia di Dylan e dei Doors almeno con gli strali dissacratorio-paradisiaci che in Hair presagiscono "l'era dell'acquario''. Hair ("capelli" - 1979) ha il sapore della favola e la suggestività del pamphlet giovanile; anche se l'opera originaria è ormai superdatata 5, il lavoro compiuto da Forman e dal commediografo Michael Weller ha saputo innestare un quid rivitalizzante di freschezza estetica e tematica senza tempo: il sempliciotto Claude Bukowski (John Savage) parte dall'Oklahoma (saluti di rito - anonimo viaggio in autobus - assoluto vuoto musicale d'accompagnamento) per raggiungere e visitare New York prima di presentarsi all'ufficio-leva per l'inizio del servizio militare. In Central Park lo aspetta però la folgorazione dell'incontro con un mondo nuovo, sfacciatamente dirompente e contagiante: al, suono di Aquarius i ballerini (diretti dalla straordinaria coreografa Twyla Tharp) inventano gesti e passi ritmicamente asincroni ma perfettamente armonizzati e pure i bianchi cavalli dei poliziotti si uniscono all'happening danzante 6. Come può il buon Claude non affiatarsi con Berger (Treat Williams), Jeanie, Woof e Hud, percorrere le multicolori vie di New York, fraternizzare con le comunità hippie del parco, inebriarsi e "volare" con le "comunioni" all'Lsd, partecipare alle pacifiche contestazioni contro i borghesi benpensanti, nel segno dell'amore per una ricca, bionda e bella giovane snob (Sheila - Beverly D'Angelo) sensibile al sentimento sincero ed alle trasformazioni (di mentalità e di costumi) che i nuovi amici le propongono?
E come può lo spettatore, preparato e ben disposto all'inventiva del rock-musical, non lasciarsi trasportare, in puntuale identificazione di spirito ed osmosi di sensibilizzazioni, dalle frizzanti melodie di Ain't Got No, I Got Life, Black Boys - White Boys, Good Morning Starshine, Hair...
"Give me it with hair, long beautiful hair" prorompe Berger e nella cornice zazzeruta del suo volto sorridente si evocano, davvero senza tempo, sempre attuali e vibranti, gli assurdi pregiudizi tra generazioni - ma pure tra coetanei ! - verso atteggiamenti ed usi spesso irritanti non per pericolose motivazioni di fondo, ma solo per una irridente e provocante spegiudicatezza. «Si ha nostalgia di ciò che è finito, di ciò che fa sorridere perché non esiste più. Ma i giovani di oggi sono come quelli di Hair, lottano per essere liberi di vivere come vogliono, di vestirsi come vogliono, di fare le scelte che vogliono» ha dichiarato Forman. Forse le sue parole sono eccessivamente ottimiste, ma é questa fiducia che gli ha fatto inseguire per anni l'idea della trasposizione cinematografica del successo teatrale di Gerome Ragni e James Rado
7 e che gli ha infuso la sensibilità ed il brio di cui é riuscito a pervadere il suo Hair.
Nel finale Claude, nonostante le "cattive compagnie" si presenta alla chiamata di leva; poi, quando gli amici vanno a salutarlo nel campo di addestramento del Nevada, accetta un'altra volta lo sberleffo al sistema e si permette una libera uscita abusiva, mentre Berger rimane in caserma al suo posto. Nel clima sempre festoso ed orecchiabile delle musiche di MacDermot, Forman e Weller operano un cambiamento al soggetto originale: all'improvviso la guarnigione parte per il Vietnam ed è il povero Berger (non Claude come nella versione teatrale) ad infilarsi nella spelonca fatale dell'aereo che lo porterà alla morteIl viaggio dell'eroe - Se Caronte è un grande coniglio bianco... .
É un susseguirsi di sequenze memorabili: Berger, pulcino spaurito con quegli "stonati" capelli corti, si appropria a livello di coscienza dello scambio di persona e si sacrifica per l'amico, marciando perfettamente incolonnato (in un processo di identificazione e partecipazione) al tempo di un ingenuo I'm Claude / Claude egli altri intonano, di fronte ad un allineatissimo cimitero militare, la "salvifica" Let the Sunshine In' ("Lasciate entrare la luce del sole"), invocazione altrettanto ingenua di un rinnovamento umano e sociale che, splendente e sfacciato in quel del '68, davvero si é infranto, nella maturità degli anni '70, contro le proprie contraddizioni e contro il livellamento implacabile del nuovo conservatorismo americano. Forman, esule in America dai primi del '70, percepisce l'esilio ideologico del "nuovo sogno" americano, di quella vibrazione giovanile che gli aveva fatto da ospite al suo arrivo e si rende conto, da buon europeo, che il linguaggio migliore col quale leggere la sinistra Usa è quello di depurarla dalle istanze politiche riottose ed inconcludenti e di estrapolarne le positività, ingenue ma stimolanti. Nel guazzabuglio festoso di suoni e danze egli richiama il musical come traduttore-emblema delle non-realtà dei sentimenti americani e vi innesta tutte quelle frecciate costruttive che erano partite dall'arco sotteso di Berkley: non per niente uno dei momenti di forza di Hair è la parentesi militare con l'ironia sonora di una corporeità sublimata (Walking in Space), contrapposta alle abbrutenti esercitazioni cui Claude è sottoposto, e con il caos istituzionale di Three-Five-Zero-Zero in cui gli altoparlanti del campo impazziscono, vomitando in faccia al generale (Nicholas Ray, quasi che la voce amplificata fosse un'altra sferzata della sua personalità) le proteste antimilitariste e suggellando un tema pacifista che si era aperto con il rogo della cartolina da parte di Berger, ma che deve ancora chiudersi per gli Americani, tutt'oggi angosciati dall'esperienza vietnamita.
Persino la negatività e la blasfema ritualità dell'incontro con la droga nel parco si stempera nel sorriso e nell'autocritica e il sogno psichedelico di Claude fa da quadro surreale e kitsch, collegandosi, quasi fastidiosamente, con la spettacolarità barocca del musical dei tempi d'oro. Il regista ripesca i fremiti della "nuova generazione" ed addolcendo l'acidità dei contrasti nella melodia e nella cromaticità, non solo si rifà al proprio passato più datato (la struttura da commedia leggera di Gli amori di una bionda ed il filo conduttore musicale di Taking-off) ma, se vogliamo, riprende pari pari l'insurrezione al sistema di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Lì il protagonista rappresentava, con la sua "insania dell'emarginato", la spina nel fianco di un universo "imbiancato" (e nelle pareti e nelle divise), qui la frenesia coloratissima dei figli dei fiori è l'alter ego di una società massificata, convertita, al "bianco e nero" di un vivere non spontaneo. E, ancora, come Mcmurphy-Jack Nicholson aveva perso l'occasione di scavalcare la finestra dell'ospedale psichiatrico per aspettare la notte d'amore dell'amico, così Berger, nel dare l'occasione a Claude di incontrare Sheila, è costretto ad imbarcarsi in un volo senza ritorno...
Milos Forman riesce comunque a tenere in vita le utopie e le speranze con la gioiosità del canto finale (che dovrebbe avere la potenza liberatoria della fuga del gigantesco pellerossa) Martin Scorsese invece, tornando alla globalità del discorso, ascolta le amare note di una "rock-culture" dimentica ormai dell'essenzialità del rinnovamento intrinseco, ed al bagno di sangue dei suoi lungometraggi più applauditi (Mean Streets, Taxi Driver) sostituisce il più accattivante bagno sonoro dell'addio della Band. Per entrambi, tra gli stracci dei ballerini e le luci dei riflettori, c'è il rimpianto non solo per gli ideali bruciati, ma pure per la scarsa riconoscenza dell'Hollywood system ai suoi passati cavalli di battaglia
8, per la cieca assuefazione del magma giovanile, disposto, una volta tagliati i capelli, anche a ricoprirli di brillantina, per una musica che delle lacerazioni elettriche tende a tenere solo l'assordante ripetititività della disco-music, per un cinema che, sempre più ricco di tecnica e di capitali ma sempre in crisi di contenuti e di soggetti, deve approdare troppo spesso alla spiaggia della "nostàlgia".

ezio leoni - Rivista del Cinematografo - aprile 1980

  

filmografia di
Martin Scorsese
(New York - USA, 1942)

1969 Chi sta bussando alla mia porta
1972 America 1929: sterminateli senza pietà
1972 Mean Streets
1975 Alice non abita più qui
1976 Taxi Driver
1977
New York New York
1978 L'ultimo valzer

filmografia di
Milos Forman
(Caslav - Cecoslovacchia, 1932)

1963 Asso di picche
1965 Gli amori di una bionda
1967 Al fuoco, pompieri
1971 Taking Off
1973 Ciò che l'occhio non vede
- Il Decathlon
1975 Qualcuno volò sul nido del cuculo
1979
Hair

1980 Toro scatenato
1983 Re per una notte
1985 Fuori orario
1986 Il colore dei soldi
1988 L'ultima tentazione di Cristo
1989
New York Stories - Lezioni di vero
1990 Quei bravi ragazzi
1991 Cape Fear
1993
L'età dell'innocenza
1995
Casinò
1997 Kundun
2000
Al di là della vita
2002
Gangs of New York
2004 The Aviator
2006 The Departed
2007 Shine a Light
2010 Shutter Island
2011 Hugo Cabret
2013 The Wolf of Wall Street
2016 Silence

1981 Ragtime
1984
Amadeus
1989 Valmont
1996
Larry Flint - Oltre lo scandalo
1996
Man on the Moon

2006 L'ultimo inquisitore

 

 

 

 

 

 

NOTE

[1] "The Band" (Jamie Robbie Robertson / chitarra - Richard Manuel /piano e voce - Levon Helm / batteria e voce - Garth Hudson / organo e sassofono - Rick Danko / basso e voce), complesso per 4/3 canadese (solo Helm é americano), iniziò nei primi anni 60 come "The Hawks", ad accompagnare Ronnie Hawkins; quindi tra il '66 e il '67 lavorò con Bob Dylan e nel '68 debuttò con l'album Music From BigPink cui seguirono The Band, Stage Fright, Cahoots, Rock of Ages (antologico dal vivo), Moondog Matinee e Nothern Lights-Southern Cross (1975). Nel '74 i cinque avevano ripreso la collaborazione con Dylan con la tournée che portò alla registrazione del doppio co-firmató Before The Flood e in seguito egli li volle con sé anche per la realizzazione dei suoi The Basement Tapes e Planet Waves. L'ultimo disco del gruppo é appunto TheLast Waltz, fatto seguire al concerto di Winterland che chiuse, per ora definitivamente, la loro gloriosa carriera.

[2] É suo, per chi non l'avesse notato, quel profilo su sfondo blu (un riferimento al suo album più riuscito?) che esegue i controcanti per la Helpless di Young. Joni Mitchell (all'anagrafe Roberta Jan Anderson - Canada 7/11/1943) é certamente una delle personalità di rilievo dell'America musicale contemporanea. Il suo stile limpido, le sue nitide tonalità vocali sono inconfondibili e la sua produzione discografica ha sempre avuto le caratteristiche creative del "work in progress". Oltre che per tutto ciò e per il sopracitato Blue (1971), la Mitchell va ricordata per il suo peso artistico (é sua la famosissima Woodstock in Dejà vu) ed umano (fu legata sentimentalmente a Graham Nash al quale dedicò il brano Willie) nel gruppo di musicisti californiani facente capo a Crosby, Stills, Nash and Young.

[3] "Vedo la luce che incomincia a brillare / dall'ovest verso l'est / da un giorno all'altro adesso / sarò liberato''.

[4] La citazione rimanda nuovamente a Dylan: Masters of War é un suo brano del suo secondo album (The Freewheelin' Bob Dylan), in cui egli si scagliava senza mezzi termini contro la violenza bellica dei potenti. Era il 1963 e la guerra del Vietnam era alle porte.

[5] L'opera teatrale Hair, su testo e liriche di Gerome Ragni & James Rado e musiche di Galt Mac Dermot, fece la sua comparsa nei circuiti off nell'ottobre del '67 ; poi nel '68 arrivò a Broadway e raggiunse la diffusione su vinile. Nell'originale le canzoni erano più numerose di quante non siano nella versione cinematografica (é eliminata tra le altre la bellissima Frank Mills) ma niente si é perso del mordente originario che allora, anche per una scena di nudo, suscitò scandalo e... successo. Da notare come, nel '68, a Broadway, gli interpreti principali fossero gli stessi autori Ragni e Rado e come tra le tante "comparse" figurasse anche una certa Diane Keaton...

[6] E' significativa a questo proposito una lunga intervista rilasciata da Forman a Dante Matelli: «... la prima scena, quella di apertura, quando viene cantata la canzone Aquarius. Non sapevamo come fare perché volevamo dare l'idea del volo e quella della realtà. Insomma un esperto di musical si sarebbe raggelato perché aveva davanti a sé due scuole: quella del realismo e quella della fantasia più sfrenata. Nessuna delle due andava bene per noi. Perché dovevamo catturare lo spettatore subito con qualcosa di originale. Fargli vedere per cosa aveva comperato il biglietto. Abbiamo scelto una strada a metà, pericolosa ma fruttuosa. La ragazza viene inquadrata dal basso e la cinecamera le gira intorno: un doppio movimento che dà l'idea della realtà più reale possibile e anche della leggerezza che deve provare uno che voli. L'altro problema l'abbiamo avuto con la scena dei cavalli che ballano. Twyla Tharp, la coreografa, aveva immaginato la scena senza preoccuparsi del sincronismo tra ballerini che ballavano e cavalli inseriti nel balletto. La soluzione l'ho trovata io. Ho fatto venire dei cavalli Lipizziani dalla California, li ho fatti ballare e poi ho obbligato il corpo di ballo a seguirli. Nel film sembra che siano i cavalli a subire la magia della felicità dei ragazzi. Ecco, di questa scena e della soluzione sono molto orgoglioso». (La Repubblica - 18 marzo 1979).

[7] Nel '67, a New York, Milos Forman assistette alla rappresentazione di Hair e subito si interessò al progetto di portarlo sullo schermo. Ottenne già allora un'opzione sui diritti, però solo dopo dodici anni é riuscito nel suo intento, conscio del rischio dell'invecchiamento dell'opera, ma convinto che tutta la sua vitalità era rimasta intatta.

[8] Va fatto presente, sunteggiando a dismisura l'argomento, che parte delle pellicole "contestatrici" (da Il laureato a Easy Rider, da Soldato blu a Fragole e sangue) fu assimilata, se non a priori manovrata, dal sistema che utilizzò i temi d'interesse del mercato giovanile per una ristrutturazione del proprio meccanismo imprenditoriale. Ora, ritrovata la sicurezza commerciale, Hollywood sembra non preoccuparsi più troppo dei contenuti superstiti di quella coscienza cui per lungo tempo ha attinto, preferendo coniare i modelli anziché patinare i fermenti già esistenti; in particolare creando miti che, se per ora possono apparire solo distensivi o "di moda", col tempo minacciano di ovattare e livellare lo spettatore con un'alienazione filmica collettiva.