da FilmTv (Mauro Gervasini) |
Inizio col botto. Anzi, no: è il finale, esilarante, incontenibile, geniale. Eppure "copre" i primi cinque minuti del film, con i titoli di testa, che poi sono quelli di coda... Scusate il nonsense, ma è impossibile parlare di Man on Moon senza cercare, umilmente, un approccio mimetico con lo stile del comico Andy Kaufman, che è (era) del tutto anarchico e surreale. Filtrato attraverso la sensibilità di Jim Carrey si trasforma in un mix assolutamente esplosivo di accelerazione del ritmo verbale e di sospensione della gag "fisica". Il film, diretto con correttezza formale da Milos Forman, sceglie giustamente di restare funzionale alla vicenda umana dell'artista americano morto a soli trentacinque anni, dopo un'ascesa al successo fatta di alti (e che alti!) e bassi. Kaufman gigante dadaista del piccolo schermo nella sitcom Taxi, corsaro catodico che si accanisce contro le certezze della finzione, i principi della rappresentabilità, l'ontologia della Tv che dispensa le sole verità possibili. E invece, nel film, tutto viene mescolato con maestria: non si capisce mai quando Kaufman/Carrey scherzi o faccia sul serio, quale sua trovata sia frutto di un colpo di genio o di un colpo in testa (letterale, nel caso del wrestling). Man on the Moon non può che subire felicemente la bravura di Jim Carrey e il potenziale comico di Andy Kaufman; nonostante il tentativo di massacro del doppiaggio italiano (che copre anche la versione di Volare cantata dal protagonista!!), colpisce nel segno, se è vero che il pubblico in sala, durante la proiezione, si sente davvero spiazzato, come avesse perduto le coordinate rassicuranti della linearità narrativa. L'abilità di Milos Forman e Jim Carrey sta tutta nell'aver riproposto integro e corrosivo il non riconciliato talento di Kaufman. L'uomo sulla luna di cui in tempi non sospetti cantavano i R.E.M. (autori della colonna sonora) è finalmente tornato sulla terra. |
da L'Unità (Alberto Crespi) |
Ogni tanto (sempre più di rado) escono film che si distaccano dalla mediocrità e diventano delle bussole, con le quali orientarsi in questa nostra faticosa modernità. E' successo nel '99 con La sottile linea rossa e con Eyes Wide Shut, succede in questo primo scorcio di 2000 con Man on the Moon. E il nuovo film di Milos Forman, cecoslovacco d'America, pluri-vincitore di Oscar con Qualcuno volò sui nido dei cuculo e con Amadeus. Ed è la storia di Andy Kaufman, meteora comica dello spettacolo americano morto troppo giovane, a 35 anni, nel 1984: brillò nel Saturday Night Live di Belushi & soci e nella sit-com Taxi, ma soprattutto sorprese l'America con i suoi spettacoli lunari e beffardi, con le sue multiformi e misteriose identità. I R.E.M. gli dedicarono nel '92 una bellissima canzone, Man on the Moon appunto, alla quale il film di Forman deve il proprio titolo. Emir Kusturica, che ha studiato cinema a Praga e che di Forman è il più geniale allievo, ha detto una frase che fotografa in modo lapidario lo «stato dell'arte» : «Non capisco come una forma espressiva moderna come il cinema si occupi ancora di una cosa ottocentesca come la psicologia». Man on the Moon è la risposta a questa provocazione: ed è, a sua volta, un film provocatorio. Parte da una sindrome psicologica - Kaufman era un uomo che «usava» la recitazione per non svelare la propria identità profonda: probabilmente era affetto da personalità multipla - non per analizzarla, ma per usarla a sua volta come specchio deformante per l'identità del pubblico, quindi di tutti noi. Kaufman è un situazionista allo stato puro (esattamente come i Sex Pistols: il paragone con la musica punk è nel film ed è quanto mai pertinente): i suoi non sono show ma performances, lo scopo è destabilizzare il pubblico. In teatro la gente vuole che lui faccia Latka, il personaggio di Taxi che gli ha dato la fama? E lui la punisce leggendo dalla prima all'ultima pagina li grande Gatsby di Scott Fitzgerald (la scena è nel film, ed è rigorosamente storica). La gente ama il wrestling pur sapendo che non è sport ma finzione? E lui la provoca proponendosi come campione di wrestling anti-femminista, che sfida esclusivamente le donne. E così via. Man on the Moon non è banalmente un'analisi del confine, sempre più labile, fra finzione e realtà; né una parabola sull'invadenza dei media nella nostra vita. E' la rappresentazione - lucida, ironica, impassibile: quindi perturbante - di come i media e le finzioni scavino nel profondo della nostra psiche e la modifichino. C'è una doppia morale nel film. In prima battuta è una morale ovvia; quando Andy comunica a parenti e amici di avere il cancro, e nessuno gli crede, con tutti gli scherzi che ha combinato in vita sua; ma diventa assai più subdola quando il funerale di Andy si tramuta in un suo show (tramite filmato, con karaoke incorporato). E la morte che si fa spettacolo, o è lo spettacolo che è sempre e comunque mortuario? La risposta non c'è, come vedrete nel finale (da non rivelare). E del resto Man on the Moon dovrebbe in realtà durare 2 minuti e finire con i titoli di testa (guai a voi se li perdete: vietato entrare in sala a spettacolo iniziato!). Ma, c'è, poi, una realtà? Se c'è, si nasconde nella sovrumana bravura di Jim Carrey, che per questo film meriterebbe il Nobel e invece non è nemmeno candidato all'Oscar: forse per gli zombie dell'Academy tutto ciò suona sinistramente autobiografico. Da vedere assolutamente, alla faccia loro. |
da Il Manifesto (Mariuccia Ciotta) |
La faccia di Jim Carrey che spunta dal
bordo dello schermo, saluta il pubblico e lo ringrazia con quella
vocetta stridula, fa l'effetto di un'apparizione dall'aldilà -
dal luogo dove abitano i divi e i morti - per dare ancora un
brivido agli essere umani. Andy Kaufman può vivere finalmente la
sua personalità multipla, e dire le cose non dette nei suoi
brevi 35 anni di vita. L'anti-comico, il situazionista, "il
guerrigliero Zen" torna nel film di Milos Forman,
Man on
the moon, per scuotere una platea anestetizzata dalla simil
comicità e spingerla verso l'enigma della vita. Andy Kaufman,
morto di cancro giovanissimo, era un John Belushi ancor più
demenziale, parola coniata per il Blues Brother, e che significa
gioco di assurdità e di nonsense, come massima sintesi
dell'arte. Haiku e mai barzellette. Esempio. Jim Carrey nelle
vesti di Andy Kaufman, infastidito da un pubblico predisposto
alla risata facile, legge dalla prima parola all'ultima Il
grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Il teatro si
svuota rapidamente, c'è chi resiste tra gli sbadigli. Tutti si
aspettavano la performance di Andy nel ruolo del meccanico Latka
Gravas, un terrificante orrendo omone aggressivo e sputasentenze,
interpretato nella sit-com Taxi. Ma lui provoca, e resiste
davanti alla platea vuota. Un solo spettatore stremato alla fine
applaude. Andy impettito, con gli occhi fissi e rotanti, cala il
sipario di velluto rosso, estasiato. |
TORRESINO aprile 2000