Il
cinema d’autore può estrinsecarsi come ossessione di originalità (in
forma e contenuti) o in delicatezza narrativa declinata su stile e
tematiche consolidate. Rientra nella prima categoria
Martin Scorsese
sempre teso ad una costruzione filmica complessa, amara, incalzante;
capace di fotografare con avvincente realismo la soavità e il tormento
di un’utopia musicale (New York, New
York), la violenza di un passato
prossimo o remoto (dalla trilogia Mean
Steets-Quei
bravi ragazzi-Casinò
a
Gangs of New York),
la follia e l’irrazionalità del presente (Taxi
Driver, Fuori
orario), i rimpianti di sempre (L’età
dell’innocenza)…
Con
The Departed
torna a tuffarsi nel gorgo malavitoso, ma trae qui ispirazione da un
blockbuster di Hong Kong (Infernal Affairs - 2002), sostituisce alle
cosche “familiari” della Little Italy le ruvide
gang irlandesi di South Boston,
esibisce una pragmatica freddezza, etica e diegetica,
nel mettere a confronto gli speculari destini di Colin Sullivan (Matt
Demon) e Billy Costigan (Leonardo DiCaprio). L’uno è un poliziotto che
fa il doppio gioco per il boss Frank Costello (Jack Nicholson),
l’altro è un agente speciale infiltrato tra gli uomini del gangster
(«da queste parti o diventi un criminale o uno sbirro»). Colin è
cresciuto nell’emulazione di un’illegalità suadente e invasiva, Billy
ha subìto il trauma di un’infanzia dicotomica, tra il rigore
proletario del padre e gli agi borghesi materni. È più facile per il
primo trovare appoggi e credibilità. L’instabilità emotiva, segnata da
scatti d’ira e momenti di panico, rendono il secondo poco affidabile,
soprattutto nel Dipartimento di Stato («Non puoi fare il poliziotto,
qui non prendiamo gente che inganna se stessa»).
Il loro duello a distanza (per interposte persone, in incessanti
contatti via cellulare) sembra divenire il dramma di una stessa
personalità lacerata, incerta sul proprio futuro, legata
indissolubilmente ad una realtà ostile in cui l’apparenza e la falsità
sono sinonimo di sopravvivenza, mentre il possibile disvelarsi del
proprio vero essere si delinea come un incubo incombente. La tensione
cala sullo spettatore come un gelido sudore, non c’è partecipazione
identificativa, ogni aspettativa viene crudemente disattesa e il
racconto della doppia vita di Colin e Billy si consuma, a loro
insaputa, anche in una contrapposizione sentimentale (sono legati
entrambi alla stessa donna, la psicoterapeuta del corpo di polizia)
che aggiunge l’amarezza del cuore al dolore del sangue.

I volti di Demon e DiCaprio, quando alfine si incontrano, trasudano
angoscia; sembra trasparire dai loro sguardi una scintilla risolutiva,
ma ogni lieto fine è fuori gioco, è “departed” (“defunto” come sulle
lapidi al cimitero). Il meccanismo che stritola i protagonisti risulta
inesorabile, perfido e amorale il pessimismo con cui Scorsese li
abbandona al loro destino.

Occorre allora rifarsi alla distinzione d’apertura per ritrovare un
po’ di respiro nella leggerezza autoriale di
Woody Allen che in
Scoop
torna al tocco aggraziato della commedia per scherzare con i
collaudati tic del proprio cinema: il gioco del crimine, riprendendo
le atmosfere londinesi di
Match Point
e la verve comica di
Misterioso omicidio a Manhattan,
la
simpatia di un omuncolo pieno di risorse (da
Broadway Danny Rose a
La maledizione dello scorpione di giada),
la cupa iconografia della morte quale immancabile monito esistenziale
(Amore e guerra,
Harry a pezzi); la nuova musa Scarlett Johansonn
(smunta in golfino e occhiali, straripante in costume da bagno) e le
solite folgoranti battute: «Emozione nella mia vita significa una cena
senza bruciori di stomaco» - «Come nascita sono di confessione
ebraica, ma crescendo mi sono convertito al narcisismo»… Sempre
amabile, sempre divertente, ma in fondo, stavolta, ripetitivo e non
indispensabile.