L'evoluzione
del cinema nell'ultimo decennio ha segnato profondamente il panorama
dei generi. Ne ha fatto le spese il WESTERN,
non ha trovato appello il
MUSICAL,
ne hanno guadagnato invece il giallo e l'HORROR
che hanno evidenziato tensioni e dissensi di un tessuto sociale torbido
come non mai. Se da una parte l'HORROR
ha acquistato pregnanza contenutistica quale valvola estrema di incubi
e alienazioni (citiamo solo Videodrome
di Cronenberg a Sotto shock
di Craven), dall'altra le distinzioni tra DETECTIVE
STORY, THRILLER, POLIZIESCO si sono
fatte più pretenziose, mentre il
NOIR
ha operato anch'esso una dirompente
mutazione inglobando in sè ogni riferimento contestuale di inquietudine,
ossessione, disperazione e mistero.
Nato
agli inizi degli anni 40 tra la crudezza e la disillusione del periodo
post-bellico,
influenzato dall'espressionismo tedesco e corroborato dalla letteratura
hard-boyled americana, il nero si via via alimentato della moralità
solitaria dei grandi investigatori privati (Il
mistero del falco, L'ombra
del passato, Il
grande sonno), dei conflitti urbani
tra malavita e forze dell'ordine (
I gangsters
e L'urlo della città
di Siodmack e ancora Il bacio della
morte, Città
nuda, Il
grande caldo), del
fascino che porta alla perdizione incarnato in tante indimenticabili
dark ladies (da Veronika Lake in Chiave
di vetro e Dalia
azzurra alla Joan Bennett di Donna
nel ritratto e Strada
scarlatta, da Barbara Stanwyck in La
fiamma del peccato a Jane Greer in
Le catene della
colpa), della crescente psicosi
distruttiva di eroi e antieroi (Detour,
La sanguinaria,
La furia umana).
È entrato nella storia del cinema con altri innumerevoli capolavori (aggiungiamo
solo i due "baci" -
Il bacio della pantera,
Tourner 1949 e Un bacio e una pistola,
Aldrich 1955 - e, del 1967, il "feroce" Senza
un attimo di tregua di John Boorman,
tratto
da un romanzo di Westlake), ha rivisitato negli anni 70 il percorso
della detection con esercizi di stile (Marlowe,
il poliziotto privato,
Il lungo addio,
Chinatown) e compromissioni politiche
(Perché un assassinio),
si è rigenerato infine dagli anni 80 ad oggi, iterando il remake (Il
postino suona sempre due volte,
Il bacio della pantera,
Due vite in gioco), accendendosi
di sensualità (Brivido caldo,
Seduzione pericolosa,
The Hot Spot), esaltando
la tensione (The Hitcher)
e la depravazione (Velluto blu),
estremizzando il polo femminile come coacervo di solitudine, rabbia,
fragilità e forza d'animo (La
vedova nera,
Doppia identità,
Nikita,
Il silenzio degli innocenti).
Non
solo, il NOIR
ha assimilato generi e sottogeneri,
ha esteso il suo dominio nella atmosfera torbida di paesaggi assolati
(Ore 10: calma piatta),
ha trovato effervescente complicità stilistica in autori quali
i fratelli Coen, David Lynch, Philip Ridley, ha flirtato con la magia
(Angel Heart),
con la caricatura (Dick Tracy)
e con la commedia (Frantic),
ha spadroneggiato nella darkness degli spazi urbani, a fianco dei tutori
dell'ordine (Black rain,
Affari sporchi), ai margini della legge
(Stormy Monday,
Rischiose abitudini)
o tra il cinismo degli yuppies (Cattive
compagnie).
Tra
tante suggestioni, nel costruire un mini-percorso all'interno della
produzione più recente vale la pena di
osare accorpamenti rischiosi
e confronti al limite della specificità dell'assunto: iniziamo
allora con Crocevia
della morte
(Joel Coen - USA 1990) in cui inseguimenti, sparatorie,
agguati e omicidi sono l'accompagnamento narrativo di un gangster film
che è summa del genere, ma che è pure, ancora una volta,
esplicitazione di tensioni, odii individuali. Quando Leo (Albert Finney),
capobanda mafioso, e Tom (Gabriel Byrne), suo braccio destro, rompono
la loro amicizia a causa di una donna, la spirale di scontri e delitti
tra gang rivali raggiunge il parossismo: lo stile dei fratelli Coen
(Ethan coautore di soggetto e sceneggiatura, Joel anche regista) esalta
ogni dettaglio, enfatizza ogni contrasto in un NOIR
estremo di furore ossessivo, un incubo abnorme di violenza, (armi da)
fuoco e fiamme.
Ancora
gangster, ancora mafia per Quei
bravi ragazzi
(USA
1990), ennesimo capolavoro di Martin
Scorsese, ancora una vicenda tesa e drammatica che esplode sorniona
tra le spacconate del giovane Henry Hill (Ray Liotta) e dei suoi compari,
l'ambiguo James Conway (Robert De Niro) e il paranoico Tommy De Vito
(Joe Pesci). "Che mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster"
esclama Henry a ridosso della prima indimenticabile sequenza (i tre
amici in auto che "ispezionano" il bagagliaio dell'auto),
che già contiene in sè la sostanza narrativa e stilistica
di tutto film: quella di un racconto morale, uno spaccato di vera esistenza
(?!) secondo i canoni e valori di una società sempre più
corrotta di cui Goodfellas
è emblematica rappresentazione. Henry Hill, il pentito che collabora
e si consegna alla polizia, un angelo caduto ("adesso tutto finito;
devo fare la fila come tutti gli altri. Vivrò tutta la vita come
uno stronzo qualsiasi"), ma soprattutto un essere umano senza più
riferimenti. L'angoscia che lo avvolge nasce non solo dalla perdita
dei privilegi ("la cosa più dura fu lasciare la vita, i
sacchetti di gioielli, la zuccheriera piena di cocaina"), ma pure
dalla precarietà dei rapporti umani, dai labili confini della
solidarietà e dell'amicizia. Esemplare la cupa tensione dei momenti
cruciali della "caduta": la macchia di sangue che si allarga
sul pavimento, l'incontro tesissimo al diner tra Jimmy e Harry, il ritmo
frenetico della giornata tipo di Henry. In Quei
bravi ragazzi l'acre sapore del crimine
e il crudo gusto del NOIR
si stemperano, si fanno sopportabili solo grazie alla magistrale "complicità"
schermo-platea che la recitazione di Pesci-De Niro-Liotta sa creare,
alla straordinaria ironia del bilanciamento immagini-musica (con, in
chiusura, una catartica Layla), agli incontenibili virtuosismi
registici di uno Scorsese in grandissima vena.
Piccola
delinquenza invece per le
Rischiose abitudini
di Stephen Frears (in originale Grifters,
maestri della truffa - USA 1990): Anjelica Huston, John Cusak e Annette
Bening rispettivamente nei panni di Lilly, Roy e Myra; madre, figlio e
la sua fidanzata in un triangolo torbido e disperato. Lilly scommette sui
cavalli per conto della mafia, Roy si barcamena tra squallide truffe, Myra
sa sfruttare la sua avvenenza per incastrare vecchi danarosi. Tra le due
donne il ruolo di Roy si fa rischioso, via via più ambiguo e (per
lui) minaccioso; entrambe puntano al suo cuore e al suo portafoglio e tra
prede e predatori della disperazione non c'è spazio per il lieto
fine. Cupo, nero fin dalle origini letterarie (il romanzo omonimo di John
Thompson), The Grifters
si fa rarefatto nello stile freddo e raffinato di Frears, ma non perde
di vista i lati oscuri della sensualità, della
sopraffazione e del disfacimento morale, caratteri topici del genere che
ritroviamo nell'intrigo mefistofelico di
Cattive
compagnie (Curtis Hanson - USA 1990).
In una Los Angeles elegante e ambiziosa Michael, un broker rampante e frustrato
(James Spader), incontra il misterioso Alex (Rob Lowe), che salvandolo
dalle onde dell'oceano lo "salva" anche da ogni remora perbenistica.
La vita di Michael viene stravolta dalla presenza di Alex, figura luciferina,
alfiere della trasgressione, della rimozione di qualsiasi valore e scrupolo
etico. Il gioco delle "cattive compagnie" manca del tutto di
freni inibitori: nel microcosmo sofisticato della gioventù californiana
il sesso e l'omicidio diventano tappe obbligate, la tecnologia del videotape
il polo magnetico di un confronto con la realtà cinico e divoratore.
Tra malvagità e corruzione l'eroe di turno è
allora Darkman, vendicatore della notte, in lotta contro una feroce
gang di assassini al servizio di un "rispettabile" uomo d'affari.
Sfigurato da un'esplosione mentre sta conducendo studi sulla pelle umana,
lo scienziato Peyton Westlake (Liam Neeson) si trasforma in un giustiziere
implacabile dei suoi carnefici, capace di assumere le sembianze delle "vittime"
di turno, ma destinato a vivere nelle tenebre poiché la pelle sintetica
che lo ricopre si decompone con la luce del giorno.
Darkman
(USA 1990), firmato da Sam Raimi (La
casa, uno e due), occhieggia all'HORROR,
è catalogabile tra i classici del fantastico, ma è soprattutto
un NERO a tutto
tondo, nero come il copricapo e il mantello che occultano il sudario di
bende, nero come la tradizione cinematografica a cui si richiama, dai vibranti
B-movies dell'Universal a classici quali Il fantasma dell'opera, La bella
e la bestia: sì perché il destino di Westlake-Darkman è
quello della solitudine e della sofferenza interiore. Le piaghe del suo
volto sono anche le piaghe della sua anima assuefatta al male, ed ancor
più del suo cuore, che deve per sempre rinunciare alla donna amata.
Raimi non rifugge i toni del melodramma, ma neppure quelli dell'humor,
padroneggia la tecnica e calibra i virtuosismi visivi facendo di Darkman
un veicolo cinematografico di grande suggestione ed efficacia.
E parlando di pelle e di suggestioni visive non si può
non arrivare a
Riflessi sulla pelle,
opera prima di Philip Ridley (GB/Canada 1990). Zona agricola degli States,
anni 50. Seth è un ragazzino in odor di crudeltà: ne fanno
le spese le rane ma anche la giovane vedova Dolphin, di cui è innamorato
il fratello maggiore di Seth, Cameron, reduce dal servizio militare nel
Pacifico durante gli esprimenti nucleari (la pelle straziata dalle radiazioni
a cui fa riferimento il titolo). Il giallo del grano, l'azzurro del cielo:
nei contrasti cromatici che contraddistinguono The
Reflecting Skin c'è l'esternazione
di una tensione sorda e incombente, di una violenza pronta ad esplodere
nel rosso del fuoco e del sangue. Due maniaci assassini violentano e uccidono
gli amici di Seth, viaggiando indisturbati per la campagna su una simbolica
macchina nera. Un colore in più, quello fondamentale, per descrivere
l'atmosfera da incubo che Ridley mutua certamente da Lynch, ma che personalizza
con un senso figurativo capace di plasmare natura, paesaggio ed insediamenti
rurali secondo la visione prospettica del piccolo Seth e la morbosa follia
che segna la sua traumatica iniziazione.
Ancora inquietudine, ancora ossessione. Il NOIR
se ne alimenta e trova una sua nuova ricca stagione nella stagnazione di
dinamiche individuali e sociali, nella omologazione di emarginazione e
criminalità, nella cupa tensione che l'entropia della disperazione
e della violenza riflette dalla cruda realtà quotidiana allo splendore
del cinema anni 90.
ezio leoni
speciale LUX settembre/ottobre
'91
|