Era dal 1995, con
Fargo,
che non si sentiva più parlare di Joel e Ethan Coen, autori del
recentissimo
Il grande Lebowski.
Quando
Barton Fink - E’ successo a Hollywood
vinse nel 1991 la Palma d’oro a Cannes, i due fratelli di Minneapolis erano
già da tempo considerati due dei cineasti più interessanti
tra quelli emersi nel corso degli anni ’80. Al di là dell’annosa
questione sul loro ambiguo collocarsi a metà strada fra la produzione
hollywoodiana e quella indipendente e/o marginale, la critica ha inserito
da subito le loro opere in quella lista, non ufficialmente scritta, dei
cineasti dei quali si segue con interesse l’evoluzione e si attende l’uscita
dell’ultimo film.
Schivi e riservati, i Coen non amano parlare delle loro opere e non tengono
particolarmente a spiegarne intenti, significati e più o meno occulti
messaggi. Qualcosa di più si conosce del loro metodo di lavoro:
divisione dei compiti (Joel regista, Ethan produttore) ma stretta collaborazione
tra i due fratelli che si esplica tanto nella stesura a quattro mani dei
copioni quanto nella redazione degli accuratissimi story-board. Se le procedure
non mutano, i budget sono invece col tempo lievitati, passando dai 750.000
dollari del loro primo film agli svariati milioni delle ultime pellicole.
Figli ‘confessi’ della televisione, i due hanno conosciuto e divorato attraverso
di essa centinaia di film, classici e non; hanno realizzato, ancora adolescenti,
i primi film in super 8 e si sono ritrovati, da adulti, a scrivere insieme
le prime sceneggiature e a decidere di tentare il salto girando il loro
primo lungometraggio. Thriller violento e atipico,
Blood
Simple – Sangue facile
esce nel
1985 sollevando una certa curiosità. Il plot, sconcertante e complesso,
racconta una serie di crudi omicidi perpetrati per caso, gelosia o avidità
da un ristretto gruppo di personaggi che agiscono in modo assolutamente
imprevedibile.
Se con Blood Simple l’esibizione del sangue e della violenza emerge
dalla complessa ma ‘lenta’ vicenda, è con
Arizona
Junior
(1987) che esplodono la movimentata
comicità, il grottesco e la follia che caratterizzeranno molti dei
personaggi dei loro successivi film. Una coppia – rapinatore lui, poliziotta
lei – finisce per rapire un bambino per coronare il desiderio di un figlio
che non può avere. Attorno ai due protagonisti si muove un gruppo
di personaggi ‘svitati’ che contribuisce a ingarbugliare ulteriormente
una serie di divertenti e folli gag nella migliore tradizione slapstick.
Emerge qui anche un più complesso stile di ripresa costretto a ‘seguire’
il movimentato corso della vicenda con accorgimenti tecnici più
raffinati.
Nel ’90 dirigono insieme il loro terzo film,
Crocevia
della morte, un imprevedibile, spettacolare
gangster movie zeppo di citazioni cinematografiche che consolida la tendenza
degli autori alla contaminazione dei generi, finalizzata però all’annullamento
di qualunque stereotipo narrativo e allo spiazzamento dello spettatore.
Ancora una volta tutti tradiscono tutti, le situazioni non fanno che capovolgersi,
gli elementi tipici dei diversi generi vengono richiamati per essere sconvolti
e sovvertiti e la vicenda si evolve rimbalzando tra la realtà e
l’apparenza, la verità e la menzogna.
Con Barton
Fink,
storia di uno scrittore affetto da un blocco creativo, l’assurdo invade
la narrazione fino a una vera e propria sospensione del reale in cui l’unica
dimensione possibile rimane alla fine quella onirica.
Nonostante i voluti, accurati e ancora una volta abilmente manipolati riferimenti
al cinema del passato (in questo caso il ‘bersaglio’ principale è
Frank Capra) Mister Hula Hoop
(1993) conserva una freddezza di fondo che non gli permette mai di decollare
davvero (per quanto l’originalità della sceneggiatura sia, come
sempre, evidente). Una freddezza che caratterizza anche Fargo
in cui il tentativo di colpire lo spettatore non passa più per il
sovvertimento dei generi, l’imprevedibilità dell’azione, le gag
o la fuga nel sogno, ma attraverso un’atmosfera di indifferenza e apatia
nella ‘normalità’ contraddetta della provincia americana.
Con Il grande Lebowski
i Coen tornano invece al brioso pastiche, ammiccante nei confronti
del cinema classico, a tratti grottesco, ironico, solo superficialmente
drammatico.
Il circolo the Last Tycoon di
Padova (cinema Lux) e il Centro Mazziano di Verona propongono la personale
completa di
questi due particolarissimi autori contemporanei: un viaggio attraverso
plot di estrema complessità, spesso ai limiti del comprensibile,
attraverso l’assurdo, la follia e l’impossibile. Attraverso un cinema,
infine, che conferma la volontà di dimostrare che nulla è
come appare e che ciò che resta, a personaggi e spettatori, sono
il vuoto e l’assenza oppure il sogno, la fiaba: una dimensione alternativa
nella quale sprofondare per dimenticare i pericoli insiti nella crudele
insensatezza del reale.
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