Vi ricordate il nostro commento, la settimana
scorsa, sulla verve autoriale di Film Rosso,
altro film reduce dal successo (ma non dal palmares) del Festival di Cannes?
Mister Hula Hoop è stilisticamente all'opposto ma surrealmente
affine, nel suo elettrizzante metabolismo d'immagini, nella straordinaria
frenesia tecnica, nel caos apparente, regolato da un progettualità
registica impeccabile. Se l'opera di Kiewlowski si può interiorizzare
e descrivere a fatica nella sua complessità fuori dal comune, questo
nuovo film dei fratelli Coen (vincitori tre anni fa a Cannes con Barton
Fink) è inenarrabile nel suo incalzante, strampalato virtuosismo
di forme e contenuti:
un'azienda
di successo che vuole entrare in crisi per tamponare lo scompenso azionista
causato dal suicidio del suo presidente, un pivello ex-fattorino messo
opportunamente a capo della ditta, il sorprendente boom economico di un
banale gadget come l'hula hoop (siamo negli imprevedibili anni 50),
il ritmo della vita così "letteralmente" regolato dall'inarrestabile
(ma ne siamo sicuri?) meccanismo del tempo. Uno sfizioso gioco cinematografico,
il gusto del paradosso e della citazione (con Frank Capra in prima fila);
eppure in tanto "divertissement", Joel e Ethan Coen, affiancati
nella sceneggiatura dal "genio" Sam Raimi, non rinunciano alla
satira mordace verso la loro esperienza all'interno dell'impero hollywoodiano
(di cui Mister Hula Hoop si può spesso leggere come un'arguta
metafora). In uno dei primi dialoghi del film si sente dire che "la
corsa al successo è un impegno assoluto" e il protagonista
(Tim Robbins), alla resa dei conti con se stesso, non può che ammettere
"ho permesso al mio successo di diventare la mia identità".
Nel rutilante tam-tam dello spettacolo, l'arguzia del buon cinema si coglie
anche nel fugace spazio di una battuta.
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