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Dolls
Takeshi Kitano - Giappone
2002
- 1h 53'
Dolls segna
il ritorno di Takeshi Kitano (Hana-Bi,
L'estate di Kikujiro,
Brother)
che ritroviamo, ancora una volta, qui in
veste di regista, sceneggiatore e montatore ma
non (e non accadeva da sei anni) come attore.
Non a caso, proprio in questo film, Kitano ha
deciso di non comparire sullo schermo, giacché,
sostiene, non c’era un ruolo che gli si adattasse
appieno. Ma Dolls costituisce, prima di
tutto, una svolta, un’evoluzione nella carriera
artistica di “beat” Takeshi: lo dimostra certamente
la sua assenza come interprete, ma ne è vera conferma
la straziante sensazione che cresce nello spettatore
durante e dopo la visione. E’ quella sensazione
creata dalle immagini attraverso la carica espressiva
della luce e dei colori che sembrano qui formare
dipinti autonomi di un’immaginaria esplosione
(Kitano è anche pittore...), una sensazione esaltata
dal lirismo della rappresentazione, contrapposta
al realismo dei dialoghi scarni e al limite dell’essenzialità,
una sensazione estrema, di morte. Parrebbe quasi
assomigliare (e per tanti, ahimè, l’effetto è
stato questo) ad una litania di immagini mute
e fini a sé stesse, condite di abiti fascinosi
e attraversate dall’insensata follia che anima
i personaggi. Si tratta invece, e il titolo lo
suggerisce palesemente così come la scena in apertura
del film (un estratto splendido di una rappresentazione
al Teatro Nazionale di Tokyo), di bambole, o meglio,
marionette del teatro bunraku, una forma di teatro
risalente al XVI secolo, espressione delle tradizioni
popolari giapponesi, in cui i marionettisti sono
in scena assieme ad un narratore e ad un musicista
di shamisen (un antico strumento a tre corde).
E i personaggi del film sono vere e proprie marionette,
protagoniste di un dramma di Chikamatsu (il più
grande autore di bunraku), travagliate dall’amore
e dall’avversità dei sentimenti, vestite da improbabili,
originalissimi e coloratissimi vestiti dello stilista
Yohji Yamamoto, con le facce irrigidite (e quasi
inespressive) come quelle bianche dipinte per
le bambole bunraku. Ma le marionette, si sa, devono
essere condotte da un marionettista e in questo
caso è proprio Kitano ad adempire a questo ruolo.
Non, quindi, parte del dramma ma fautore delle
emozioni e costantemente visibile, nello stile
e nel respiro, ora particolarmente ponderato e
quasi più vicino a quello del suo padre artistico
Nagisa Oshima.
Sono tre storie autonome ma intrecciate tra di loro, quelle che
compongono Dolls. Tre storie d’amore disperato caratterizzate da
un cammino a ritroso di pentimento, di ripudio
delle
proprie scelte: un giovane lascia la sua ragazza per sposare la
figlia del proprio capo, ma saputo del tentato suicidio
di lei diserta la cerimonia nuziale per raggiungerla. Insieme
partiranno per un viaggio “risanatore” lungo tutte e quattro le
stagioni, legati l’un l’altro da una simbolica corda (rossa)… Un
anziano boss della Yakuza si ricorda della ragazza che da
giovane gli portava ogni giorno la colazione nel parco, poi
abbandonata per rincorrere il suo sogno di potere. La ritroverà
seduta sulla stessa panchina, con lo stesso vestito, pronta ad
aspettarlo… Una giovane e famosa cantante pop ha un incidente
d’auto che le sfigura la faccia. Si ritira in una vecchia casa
sul mare, lontana da tutti ma il suo fan più devoto arriverà ad
accecarsi pur di poterla avvicinare…
L’esito delle tre storie non
lascia troppo spazio alla speranza e, nonostante il tocco
leggiadro di Takeshi Kitano, un incombente senso di morte grava
sull’animo. Dolls rientra appieno nella rinnovata concezione
esistenzialista nipponica configurandosi come nuovo fantastico
saggio sul profondo valore della vita.
Alessandro Tognolo
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Far From
Heaven
- Lontano dal paradiso
Todd Haynes - USA
2002 - 1h 47'
www.farfromheavenmovie.com
Lontano dal paradiso, è la traduzione letterale di
Far From Haven
di Todd Haynes (Velvet
Goldmine). Ci troviamo di
fronte ad un mélo che fin dal titolo racchiude in sé un’arida
prospettiva e una (futura) consapevolezza della realtà. Sarà,
difatti, proprio questo il percorso interiore della
protagonista: un percorso di cognizione della propria vita e del
disfacimento dei valori che credeva indissolubili. Far From
Heaven non è affatto però un melodramma moderno, e lo si
percepisce fin dal primo istante. Con lo scorrere dei titoli di
testa, veniamo catapultati nei gloriosi anni cinquanta (è il
1957), in una splendida cittadina del New England (Hartford,
Connecticut) dove vive l’altrettanto splendida e apprezzata
famiglia dei coniugi Frank e Cathy Whitaker, l’uno direttore di
una filiale di una società di televisori, l’altra casalinga
premurosa e protettiva verso i due figli, moglie stimata ed
invidiata dalle amiche (verrà addirittura intervistata da un
giornale locale come esempio di perfezione muliebre...). Sotto
l’apparente, costante strato di serenità (delineato dal trionfo
dei colori dei fiori e delle foglie, che sembrano scandire il
tempo, dell’arredamento, ricercatissimo, dei vestiti,
meravigliosi nella loro anti-modernità: gonne a ruota, corpetti
strizzati, foulard di chiffon) in cui sembra vivere sia la
famiglia Whitaker che tutta la cittadina, scalpita la sensazione
amara dell’insoddisfazione, dell’ipocrisia, del razzismo.
Quello di Haynes è un evidente atto d’amore verso un’epoca e la
rappresentazione dello stile e delle contraddizioni da cui
quell'epoca (quella indimenticabile della Hollywood degli anni
cinquanta) è stata caratterizzata.
Un omaggio ai registi che
hanno fatto la storia di quel periodo, John Stahl e soprattutto
Douglas Sirk, da cui viene parafrasato anche il titolo del suo
All That Heaven Allows
(1955, in italiano
Secondo amore) di cui Far From Heaven sembra quasi
essere il rifacimento. Un rifacimento originale e non
assolutamente impersonale da parte del regista, ottenuto grazie
alla cura dei dettagli e alla maestria, in primis, della
protagonista, Julianne Moore.
La forza del dramma poggia tutto su di lei, capace di donare
sempre sorrisi e gentilezze, anche quando è preda della
sofferenza familiari (la crisi col marito, che si presenta
dapprima come insoddisfazione sessuale e poi
come manifesta omosessualità), malinconica come la Jane Wyman di
Secondo amore, forte nel far
valere il proprio punto di vista quando, non badando alle voci
maligne, porta avanti il suo rapporto di solidale amicizia con Raymond, il giardiniere di colore.
"Lontano dal paradiso" ciò che resta (e che trionfa) alla fine è
la coerenza, è la passione. Quella di Cathy nella finzione del
racconto, ma anche, nella concretezza della realizzazione,
quella di tutti coloro che hanno partecipato a portare sullo
schermo questo splendido mélo d’altri tempi: dal compositore Elmer Bernstein al direttore della fotografia Ed Lachman
(premiato proprio a Venezia per questo suo contributo), alla
costumista Sandy Powell (già oscar per
Shakespeare in
Love), a Dennis Quaid, in
un ruolo inusuale ma azzeccato nell’interpretare un Frank in
balìa degli eventi e di sé stesso, ad Haynes
, regista e anche
sceneggiatore, che sa imbrigliare con raffinata eleganza la
materia narrativa ed esaltare con il preziosismo della citazione
la retorica del melò.
Alessandro Tognolo - Ezio Leoni
TORRESINO - febbraio
2003
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L'uomo del treno
(L'homme du
train)
Patrice Leconte - Francia
2002 - 1h 30'
È un respiro
mesto e malinconico e assieme leggero ed epurato quello che ci
propone Patrice Leconte nel suo L'homme du train. Un canovaccio
solido, semplice, quasi essenziale: un luogo, la provincia
francese, due personaggi soli, due esistenze agli antipodi che
si incontrano per caso (o chissà, grazie ad una fiabesca
coincidenza...) in una farmacia e scoprono reciprocamente le
loro vite, attraverso i loro sentimenti e i loro sogni: Milan e
Manesquier, l’uno taciturno e misterioso arrivato per rapinare
una piccola banca locale, l’altro logorroico e divertente,
professore in pensione amante della poesia. Ed è proprio grazie
all’afflato poetico, che Leconte sembra aver bene assimilato,
che la struttura del film pare sospesa a mezz’aria, tra la
realtà più tangibile fatta di luoghi, personaggi e situazioni a
noi così comuni (riconducibili direttamente al pantofolaio
Manesquier e al suo impulso di rinnovamento) e il presentimento
onirico che porta con sé l’arrivo di Milan. Composto, levigato,
accorto: così si presenta agli occhi dello spettatore il lavoro
svolto dal regista sull’immagine attraverso movimenti di
macchina accorti e meditati e l’alternanza dei toni: freddi
quelli dell’esterno, caldi negli interni (fotografia di
Jean-Marie Breujon)
quasi
a riprendere la dicotomia psicologica dei due personaggi. Jean Rochefort (certo più meritevole della
coppa Volpi del nostro Accorsi...) interpreta il suo Manesquier
sentitamente, quasi giganteggia
con naturalezza districandosi
tra gag e pathos. Johnny Hallyday (ancora una star musicale in
Francia) adatta il suo sguardo da macho ad un Milan in fondo
tenero e non privo di illusioni. Scopriranno entrambi di
desiderare uno la vita dell’altro. E nella scena conclusiva le
figure dei due uomini prima si sovrappongono, poi si distaccano
per seguire ognuna la propria (nuova, differente?) strada.
Alessandro Tognolo
LUX - mini-personale
di Patrice
LECONTE
- aprile 2003
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Oasis
Lee Chang-dong - Corea
2002
- 1h 53'
Proviene
dalla Corea del sud il film che più di tutti ammalia per il
coraggio della messa in scena di un soggetto, già di per sé
incandescente: l’amore tra un uomo e una donna, l’uno ritardato,
l’altra paraplegica. Lee Chang-dong, nome da noi poco noto ma
celebre in patria, scrive e dirige il suo terzo lungometraggio,
una storia di solitudini che si incontrano, di sofferenze
condivise, di disagio estremo e condannante. Lee Chang-dong
nasce come scrittore e si vede: la sceneggiatura è compatta e
fin troppo ragionata, senza però incidere per questo sulla
dolcezza, sulla struggente tenerezza dei due anomali amanti.
Hong Jong-Du esce di prigione e si ritrova immerso nel caos
metropolitano. Han Gong-Ju vive tutto il giorno all’interno di
un appartamento, lasciata sola ad ascoltare la radio. Per caso
si avvicinano e innocentemente iniziano a legarsi l’un l’altro,
entrambi bisognosi di affetto… Il resto ha bisogno d’essere
visto, fino alla conclusione programmatica, ad opera di un
inesorabile destino.
Oasis
risplende della sublime interpretazione di Moon So-ri, l’attrice
che interpreta la ragazza disabile: è davvero difficile
stabilire se il suo handicap sia reale o se si tratti di una
perfetta recitazione. Solo quando la si vede ballare, sorridente
in un sogno, si percepisce fino in fondo lo sforzo e la bravura
di quell’interpretazione così “vera”. E se Moon So-ri ha
ricevuto il premio come attrice rivelazione, azzeccato è anche
il riconoscimento per la regia, lontana da qualsiasi patetismo
in cui facilmente avrebbero potuto far incorrere temi così
delicati. La macchina da presa sfiora e accarezza, un po’
timida, i goffi movimenti dei due senza essere mai gratuitamente
"ruvida"! E Oasis è la scritta che compare nell’arazzo
appeso al muro di fronte al letto dove trascorre la maggior
parte del tempo Han Gong-Ju. Sicuramente la metafora del suo
sogno incessante, una parola e una visione che riassume insieme
tutte le frasi e i discorsi che mai riuscirà ad esprimere.
Alessandro Tognolo
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Road To
Perdition - Era mio padre
Sam Mendes - USA
2002
- 1h 59'
www.roadtoperdition.com
Road to Perdition
segna il ritorno del regista inglese Sam Mendes
,
reduce del successo (e dell’oscar) ottenuto con
American
Beauty e forte della libertà espressiva, e soprattutto
finanziaria, conquistata dopo la consacrazione a “grande
regista”. Questa volta costruisce un’opera altrettanto perfetta
ma di tutt’altro genere. Ci troviamo di fronte ad un gangster
movie ben congegnato, dove ci sono i killer, le famiglie, i
padri e i figli. Ed è sul rapporto padri-figli che si sviluppa
essenzialmente la trama: Tom Hanks, un gangster irlandese al
servizio del boss Paul Newman che l’ha adottato (!), vedrà
moglie e figlio massacrati dopo che l’altro figlio, il
primogenito, è stato testimone della resa dei conti tra due
“clan”. Ha così inizio il drammatico cammino di autodistruzione
di un padre (Hanks appunto) per salvare il figlio da un tragico
destino e garantirgli un futuro migliore…
Mendes ha dalla sua una sceneggiatura meno banale della media
dei copioni hollywoodiani ed è soprattutto molto abile nel
dipingere ambienti e far trasparire stati d’animo, siano essi la
messa in scena di un’analisi attenta e cinica di una società,
quella americana, che vive l’ossessione verso alcuni incubi (o
bisogni?) inconsci come violenza, criminalità e vendetta anche
attraverso personaggi, spietati ma allo stesso tempo “puri”. Ed
è un gran bello spettacolo il duello d’attori tra un Newman
ruvido, segnato dal tempo e dall’esperienza, e un Hanks
intrepido e disincantato e allo stesso tempo affettuoso (qualche
volta cade però vittima di sé stesso: non è facile trasformarsi
in “cattivo”...). In sordina un Jude Law spesso caustico, sempre
capace di frizzare l’ambiente, anche quello di un’opera callida
e non sempre autentica. Road to Perdition non riesce infatti, specie nel finale, a
scontare il suo debito verso Hollywood e scade inesorabilmente
nella profusione di valori quali l’amore, la serenità, il bene.
Esemplari, consolanti… un po’ troppo manierati.
Alessandro Tognolo
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Lilja 4-Ever
Lukas Moodysson - Svezia
2002
- 1h 49'
Lilja è una ragazza di sedicianni. Vive in
un anonimo sobborgo putrido e desolante disperso da qualche
parte dell’ex Unione Sovietica. Viene abbandonata dalla madre
che fugge in America con un uomo. E’ costretta a vivere sola,
senza soldi ma non perderà mai la speranza che anche lei, un
giorno, potrà condurre una vita decente. Il suo unico amico è un
ragazzino più piccolo di lei, Volodia, ridotto nelle stesse
condizioni. La loro vita non conosce altro che umiliazioni, il
loro mondo è cosparso di desideri semplici e illusioni di
serenità che non si realizzeranno mai. Per vivere è costretta a
prostituirsi, viene ingannata da un uomo di cui si innamora che
la convince a trasferirsi in Svezia, ma anche lì verrà
maltrattata e condannata alla stessa vita che si è lasciata alle
spalle...
E’ tremendo ripercorrere con il pensiero la storia di Lilja,
perché spaventosa è l’idea che quella sia la vita di molte
ragazze che, come lei, si trovano a vivere nella medesima
realtà. Si tratta di una realtà frantumata di un paese decaduto
in cui non persiste praticamente più alcun valore, se non,
forse, quello dei soldi. Lukas Moodysson prosegue con il
tracciare un ipotetico discorso sociale dopo
Fucking Amal
e
Together
(certamente più rasserenanti), ponendo qui una peculiare
attenzione alla figura dei giovani, che più di tutti assimilano
e sopportano e manifestano il dolore e l’incertezza che la vita
li costringe ad accettare. Meno compiuto rispetto ai lavori
precedenti,
Lilja 4-Ever
è soprattutto un feroce schiaffo atto a svegliare dal torpore
tutti coloro che faticano a credere, o fingono di non vedere, la
consistenza della sventura che incombe sul presente della
"civiltà". E lo stile realista
, consunto, sporco, alla “danese”,
non potrebbe essere più azzeccato per lo scopo.
Concretamente consci del dramma a cui assistiamo non risulta
facile arrendersi, E accettare,inermi, Il destino
della protagonista. Lilja (Oksana Akinshina), candida e tenace,
ci afferra con il suo ingenuo sorriso e lo sguardo sfinito di
chi ha visto troppo, per dirigerci laddove, laida, alberga la
rovina.
Alessandro Tognolo
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E'
stata, quella di quest'anno, la 17a edizione della
Settimana Internazionale della Critica. Nata per dar spazio al cinema
d'autore, la Sic è divenuta una sorta di piccolo festival nel
festival, dove autori esordienti hanno l'occasione di mettersi
in mostra, con un'attenzione che difficilmente riuscirebbero ad
avere in competizioni più affollate. La bontà delle scelte della
selezione trova riscontro nella presenza delle opere prime della
Sic tra i Leoni d'argento - premio De Laurentis per l'opera
prima: nei sei anni del premio, ben cinque edizioni sono andate
ad appannaggio dei film della Sic, compresa quest'edizione dove
il premio è andato, ex-aequo, all'americano
Roger Dodger e
all'italiano Due amici. Molti i nomi dei registi che, presentati
alla Sic, oggi si trovano nei concorsi ufficiali, come Peter
Mullan recente vincitore del leone d'oro con
Magdalene. E
ancora: Flora Gomes, Carlo Mazzacurati e Kevin Reynolds, Ian
Schütte e Mike Leigh, Paolo Benvenuti e Sergio Rubini, Antonio
Capuano e Olivier Assayas.
Organizzata dal Sindacato Critici
Cinematografici - guidata da Andrea Martini e composta, oltre a
chi scrive, anche da Francesco Di Pace, Anton Giulio Mancino,
Roberto Nepoti - la Sic rientra nel programma ufficiale della
mostra: i sette film sono il setaccio
di circa trecento, cui si
aggiungono due autentici eventi, la presentazione di
Shadows,
folgorante esordio di John Cassavetes, in un'edizione restaurata
a quarant'anni dalla sua uscita, e Darò un milione, che,
in
collaborazione con la Scuola Nazionale di Cinema, costituisce un
omaggio a Cesare Zavattini, nel centenario della nascita.
Le sette pellicole provengono da aree geografiche differenti:
dalla Russia agli Stati Uniti, dall'Asia all'Occidente europeo,
esse incarnano generi diversi, anche se la sensibilità degli
esordienti mal si adegua a definizioni, a trappole schematiche.
Molto più spesso i giovani registi scelgono storie vicine alle
proprie esperienze estetiche e personali, in cui traspare la
forte drammaticità dell'esistenza.
C'è anche un italiano, scelta
difficile perché la pattuglia di casa nostra non è stata sempre
all'altezza. Si è scelto un film anomalo,
Due amici, di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, tratto da una commedia dello
stesso Scimone, messinese, già portato sulle scene con successo
da Carlo Cecchi, che narra, mescolando influenze "beckettiane",
la storia di due emigrati al Nord. Sotto l'egida di Giuseppe
Tornatore e del fratello Francesco, che ha prodotto il film.
L'esame,
dell'iraniano Nasser Refaie parla di donne e
discriminazioni, nel cortile di una grande scuola, dove le
ragazze attendono di sostenere l'esame di ammissione
all'università che, per loro, è numero chiuso. Un film
realistico, privo di compiacimenti estetizzanti o di rigide
impostazioni didattiche, dove la denuncia e il racconto si
fondono per giungere allo spettatore in maniera diretta ed
austera. Sempre dall'Asia arrivano Nel paese dei sogni del taiwanese Cheng Wen-Tang e
La donna dell'acqua del giapponese Hidenori Sugimori.
Il primo è costruito attraverso una serie di
dicotomie, in cui il passato interagisce con il presente, lo
sguardo realistico con l'interesse etnografico, il senso atavico
della comunità aborigena con la solitudine metropolitana, in un
registro fortemente melodrammatico, che unisce due storie,
all'apparenza prive di collegamenti;
il secondo , invece,
fortemente estetizzante e tutto improntato alle tonalità del
blu, espone, più che narrare, la vita di una ragazza e del suo
particolare rapporto con l'acqua e la pioggia.
La coda dell'aquilone, del moscovita Aleksei Muradov,è un denso,
tarkovskiano, apologo sulla vita e la speranza, con un freddo
esecutore di condanne a morte, nella prima Russia gorbacioviana,
che vive in funzione del figlio paralitico, cui spera di rodare
l'uso delle gambe.
Quanto ai due film occidentali, essi fanno riferimento a modelli
completamente diversi.
L'americano Roger Dodger, di Dylan Kidd,
notturno e tragicomico, descrive spietatamente un mondo
newyorkese fatto di feste e seduzione (il protagonista è un
pubblicitario di successo che cerca di completare l'educazione
sentimentale del nipote adolescente) e si basa, oltre che
sull'essenzialità di una messa in scena rigorosa, sulla forza
distruttiva di dialoghi taglienti. Un honnete commerçant,
infine, è un polar di tipica tradizione francese che svela
progressivamente
brandelli di verità, continuamente ribaltati
nel loro possibile contrario; una regia secca e rigorosa, opera
di Philippe Blasband, scrittore e sceneggiatore belga di origini
iraniane, salito agli onori della critica per
Une liaison pornographique di Frédéric Fonteyne e
Thomas est amoureux di
Pierre-Paul Renders. Gli ultimi due sono anche film in cui
appaiono attori importanti: Roger Dodger si avvale di star del
calibro di Isabella Rossellini, Jennifer Beals, Elizabeth
Hartley e Scott Campbell, che lo produce;
Un onesto commerciante
si basa sull'apporto di Benoit Verhaert, enigmatico
protagonista, e di un angelico monsieur Chevalier interpretato
da Philippe Noiret.
Michele
Gottardi
(Commissario di selezione
Sic) |
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