Paradosso
Dylan. L’opera più eccentrica ed emozionante della 64a
Mostra del Cinema approda sugli schermi italiani con un titolo,
Io
non sono qui,
già di per sé spiazzante e contraddittorio (sa di alienazione
mentale). Il lavoro di
Todd Haynes
, in originale invece
I’m
Not There
(Io non sono là), prende spunto da una canzone-fantasma
registrata nel ’67 ed inserita nei mitici
Basement Tapes pubblicati una prima volta
nel 1975, ma solo nel 1992 in una versione definitiva (non ufficiale,
così come il testo!) dove compare il brano in questione. Emblematica
quindi la scelta per delineare un film-mosaico in cui i tasselli sono
costituiti dalle enigmatiche personalità in cui può essere descritto
(secondo il regista*)
il mitico Bob Dylan: poeta, profeta, fuorilegge, imbroglione,
star di elettricità, martire del rock and roll, “cristiano rinato”.
Per ognuno un nome e un attore diversi che identificano i momenti
significativi, i periodi musicali, le connotazioni ideologiche della
sua vita, artistica e privata. E per ogni immagine del
personaggio-Dylan uno stile particolare, un taglio narrativo ora
lineare, ora surreale, ora incalzante, ora trattenuto. In un rigoroso
bianco e nero
Arthur
(Rimbaud) risponde come ad un intervistatore fuori campo; al poeta
francese, fonte di ispirazione per la fase blues di Dylan, il compito
di confrontarsi con le accuse di attivismo sovversivo legato alla
sinistra radicale (l’interprete è Ben Whishaw). Con la chitarra in
spalla, montando e saltando dai treni in corsa il ragazzino di colore
Woody
(Marcus Carl Franklin) incarna la primavera musicale del nostro,
quando andava rivelando la sua anima folk, quando attraversava
l’America come un vagabondo per arrivare al capezzale del suo idolo
Woody Gurthie. A Christian Bale è affidato un doppio ruolo; in primis,
con il nome di
Jack
Rollins, quello essenziale, del Dylan anni ’60: una chicca le
copertine dei vinile di allora riproposte e riadattate per questa meticolosa rilettura che non manca di coinvolgere la compagna di vita
e musica Alice Fabian (alias Joan Baez, impersonata da Julienne Moore).
Ritroveremo poi Bale, in una breve parentesi, come
pastore
John, a stigmatizzare la svolta
religiosa degli anni ’70…
È già chiaro come il magma di riferimenti culturali renda il racconto
un prodotto cinematografico per iniziati, per dylaniani esperti, ma
Hyanes calca ulteriormente la mano con uno stile visionario che somma
alla frammentazione narrativa un intarsio di montaggio psichedelico
(le varie storie si interrompono di continuo, si accavallano, si
intersecano) che estremizza ogni personalità, ogni situazione.
L’apertura, prima di affidarsi alle folgoranti note di Stuck
Inside of Mobile, introduce alcune sequenze
di una motocicletta, quindi la fugace apparizione di un Bob Dylan
defunto (“giace lì; che la sua anima riposi in pace con la sua
scortesia”): il riferimento è al drammatico incidente del 1966 nel
quale “morì il primo Dylan” e a cui fece seguito una fase di
isolamento umano ed artistico. Ecco allora che Haynes va a prestito di
un personaggio come
Billy
The Kid (per il film di Peckinpah del ‘73 Dylan scrisse una splendida
colonna sonora) e lo affida alla recitazione sorniona di Richard Gere
per concedergli, simbolicamente, di sopravvivere alla fine, propria e
di un’epoca, e per descrivere la voglia di isolamento, l’ermetismo
poetico di un Missouri iperreale (Enigma), l’incombere delle contraddizioni e
del progresso, l’immancabile riavvicendarsi del viaggio musicale.
È la parte meno convincete e più stagnante di
I’m
Not There
che invece si inebria nei quadri disegnati attorno alle due figure di
Robbie
e Jude. Il primo (Heath Ledger) impersona un popolare divo
cinematografico e sulla sua storia privata (il successo, l’amore e
il matrimonio, la crisi coniugale e la separazione) si intrecciano gli
avvenimenti politici degli anni 70 (col Vietnam sulla sfondo). A
prendere il ruolo di
Jude
Quinn è invece Cate Blanchett (straordinaria, meritatissima la coppa
Volpi), che gioca sull’identità androgina del Dylan nella seconda metà
degli anni 60, quando “il menestrello delle coscienze” ebbe modo di
incontrare Allen Ginsberg e i Beatles, si trovò in attrito con la
stampa (efficace la concretizzazione del famoso
Mr. Jones), “sparò” in faccia al pubblico
dei suoi fans la svolta elettrica del ’65 (Festival di Newport).
Il tutto cadenzato ovviamente da musiche e canzoni che hanno precorso
i tempi e segnato un’epoca, che hanno fatto da mentore a più di una
generazione. Oltre venti i brani nella versione originale del
cantautore di Duluth (vi nacque nel 1941 con il nome di Robert Allen
Zimmerman), circa quindici quelli presi come cover per seguire
cronologicamente la sua discografia (ben 50 gli album ufficiali), per
accompagnare nell’arco della fiction la complessità dei suoi alter-ego.
In chiusura è l’immagine di Dylan stesso che riempie lo schermo,
seguita dal
suono memorabile di Like a Rolling Stone.
Come sentenzia Bob-Arthur “una canzone è qualcosa che corre da
sola”.
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