Come
si vince una Palma d'oro? La storia narrata da
4
mesi, 3 settimane e 2 giorni
è così forte che
rischia di oscurare il suo vero valore. Certo che non si sapeva nulla
degli aborti nella Romania di Ceausescu, né si poteva immaginare quali
infamie accompagnassero questa pratica così diffusa anche se (o proprio
perché) proibita. Eppure ci voleva un grande film per rendere il tutto
raccontabile e in certo modo digeribile. Un film che non distilla
banalmente informazioni su un mondo remoto ma rende questa vicenda
universale scrivendola sui corpi, nei gesti, negli sguardi dei personaggi.
E nei tempi ora dilatati ora precipitosi di una storia non solo atroce ma
carica di suspense (senza mai sfiorare, ci mancherebbe, i trucchi o gli
effettacci del cinema "di genere" oggi così di moda). Cosa racconta in
fondo Cristian Mungiu
? Una paradossale, ineluttabile, orribile normalità.
È questo sentimento che prende alla gola seguendo le peripezie di due
amiche diverse in tutto, una a dir poco distratta, una fin troppo
coscienziosa. Alle prese con un'operazione già traumatica che degenera
nell'orrore dello stupro. E con tutto un teatrino di comprimari, ora
sinistri ora indifferenti, che uniti a un abile tessuto di false piste e
digressioni moltiplicano il disagio e la paradossale familiarità costruita
da Mungiu. Atroce e più vera del vero. |
4 mesi, 3 settimane e
2 giorni
racconta splendidamente – senza una parola sbagliata nei dialoghi, un
effetto retorico, una scivolata nel già visto, o nel contesto politico che
attenua la responsabilità individuale – la storia di un aborto. Lo fa in
tempo quasi reale, senza risparmiare i dettagli più atroci: cerata sul
letto della camera d'albergo, ragazza sdraiata a gambe aperte,
introduzione della sonda. Prima, una disgustosa contrattazione con il
praticone, monsieur bebé, troppo astuto per non capire che il terzo mese è
superato da un pezzo. Dopo, lo smaltimento del feto, abbandonato a terra
in un asciugamano. Se ne occupa l'amica del cuore, che la stessa sera è
attesa a una cena dai genitori del fidanzato, ignaro di tutto. Non si può
seppellirlo, o gettarlo nel gabinetto: cani o idraulici sono in agguato.
La scena, di quelle che levano il fiato, è stata rivendicata dal regista
come necessaria, e bocciata da qualche critico come un inutile pugno nello
stomaco (nulla invece hanno avuto da dire sull'angosciante squallore degli
anni di Ceausescu, o sui portieri d'albergo che chiedono mazzette, perché
nella miseria della dittatura ognuno si rifà esercitando il suo minuscolo
potere)... Il dramma acchiappa dalla prima scena, quando le due splendide
e naturalissime attrici fanno i bagagli per una spedizione non ancora
precisata. Se per un attimo riuscite a staccarvi, noterete la sapiente
sceneggiatura, e un uso del montaggio sconosciuto al cinema verità. |
Questo aspro film rumeno
(Palma d'oro a sorpresa) girato dal quarantenne Mungiu colpisce la mente e il
cuore. La piccola storia ignobile di due ragazze, umiliate e sole nella Romania
di Ceausescu, quando l'aborto era clandestino, non concede un attimo di
consolazione. Il regista, macchina da presa in spalla, bracca le due
protagoniste (la giovane che rinuncia al figlio e la sua coraggiosa amica) alla
maniera dei Dardenne
e di Gus Van Sant,
e le cala in un mondo di uomini egoisti o spietati. Un'immagine del feto, per
terra nel bagno del triste albergo, è crudele ma necessaria, come il dolore. |