Arriva
Kim Ki-duk
e, qui a Cannes, il concorso ha un colpo d'ala, lungo
percorsi dove le logiche del reale si dissolvono in un mondo capace di
intrecciare sogni e incubi e inchinarsi alle logiche irrazionali dell'
amore. Con
Soon (Soffio), il regista coreano si ricollega all' universo di
Ferro 3, al suo sradicamento esistenziale e alla sua logica di violenza e
sopraffazione, ma in modi ancor più radicali e stranianti. La protagonista
del film, Yeon (Zia), moglie tradita di un ricco marito (Jung-Woo Ha),
scopre che un prigioniero (Chang Chen), in attesa dell' esecuzione
capitale e che ha già tentato due volte il suicidio in cella, è un suo
fidanzato di gioventù. Senza spiegare al marito neppure le vere ragioni
delle sue assenze, comincia a far visita al prigioniero in carcere. Lui
non parla: è la conseguenze dei tagli che si è fatto alla gola, ma il
parallelo con il mutismo del protagonista di
Ferro 3 è troppo forte per non potervi leggere qualche
valore metaforico sull' oppressione delle istituzioni (e più in generale
della società) che «toglie» la parola alle persone. Lei invece gli si
confessa davanti, ricordando momenti angoscianti della propria vita e
aprendogli la propria anima di donna infelice e triste. Ma anche di
insospettata «suffragetta» della voglia di vivere se dopo il primo
incontro tappezza letteralmente il minuscolo parlatorio con immagini di
panorami ispirati alle stagioni, a cui corrispondono anche i vestiti e la
canzone con cui accoglie il prigioniero, forse più stupefatto dello
spettatore. Affidandosi più alle immagini che alla (scarse) parole, Kim
racconta una passione che cresce nonostante tutto sembri ostacolarla,
dalla gelosia del marito alle regole del carcere (gli incontri sono
osservati dall' occhio elettronico del direttore che interviene per
fermare i segni di tenerezza tra i due, ogni volta però concedendo un po'
più di tempo e di «libertà») per offrirci il quadro di un mondo dove tutti
vivono imprigionati (la modernissima casa di Yeon ha quasi meno finestre
del carcere) e dove i sentimenti non riescono a realizzarsi. Con una
libertà narrativa che non si preoccupa della razionalità e con una forze
espressiva che aggira la povertà di mezzi, questo film magico e misterioso
prende per mano lo spettatore per portarlo dentro i misteri dei sentimenti
umani e la logica apparentemente contraddittoria delle passione, capaci di
dare vita e morte quasi nello stesso momento. |
Kim
Ki-Duk ha ormai acquisito una capacità produttiva e realizzativa
invidiabile. Riesce a realizzare in tempi brevissimi film che non mancano
mai di stupire piacevolmente il pubblico del cinema di qualità anche se la
critica internazionale, dopo averlo scoperto e promosso, sta
progressivamente prendendone le distanze. Forse perché il suo è un cinema
troppo personale (nel senso più pieno del termine) per continuare a
piacere a lungo a chi cerca la novità per la novità. Il conflitto tra
l'amore e la passione che si fa tutt'uno con il sesso, tra lo spirito e la
carne che sembra a volte pretendere la violenza sono problemi che
attraversano tutto il suo modo di fare cinema e che anche in questa
occasione si ripropongono. Ancora una volta l'irrazionale irrompe in una
vita 'normale' così come in quella di qualcuno che ha la morte con sé per
averla procurata ad altri e aver cercato di darla a se stesso. La donna
offre al condannato quel respiro che lui si è sottratto ma di cui anche
lei sente il bisogno. Un respiro che può però anche trasformarsi
repentinamente nel suo contrario: la soffocazione. L'interiorità di lei si
è trasformata in un angelo con un'ala ripiegata che ha bisogno di spiccare
il volo e che trova lo spazio nell'angusta dimensione di un carcere. Il
regista sudcoreano sa bene come esprimere le tensioni interpersonali
filtrandole attraverso l'uso delle immagini. L'uomo ha bisogno di immagini
e di simulacri e questo film in particolare se ne occupa. La televisione,
il circuito interno della prigione che registra gli incontri tra i due, i
graffiti sul muro, le foto che la donna dona al condannato, gli stessi
fondali iperrealistici che utilizza come sfondo con cui 'ricreare' il
parlatorio sono tutti legati alla necessità di trasformare in immagini
l'esperienza e al contempo fissarla per poterla in qualche modo possedere.
Ma si tratta di un possesso fragile e reversibile. Come pupazzi di neve
destinati a liquefarsi. |