da Il Messaggero (Fabio Ferzetti) |
Con
Zodiac
David Fincher (Seven)
svela la fonte primaria di ispirazione di quell'horror-thriller quasi
insostenibile per la sua minuziosa efferatezza, ma ne rovescia anche
l'estetica e i presupposti. Rievocando il serial killer che terrorizzò la
zona di San Francisco fra gli anni 60 e 70, il californiano Fincher torna
infatti alle angosce della sua infanzia, ma non potendo trovare un senso,
una logica, un colpevole sicuro, moltiplica le piste e non ne chiude
nessuna. |
da Il Corriere della Sera (Paolo Mereghetti) |
Zodiac di David Fincher è un giallo costruito contro tutte le regole del mestiere: non è la «fetta di torta» che sarebbe piaciuta a Hitchcock, non svela assassini né moventi, non offre allo spettatore né soluzioni né catarsi. Eppure riesce ad avvincere perché scava dentro l'ossessione principe di ogni mistery (e di ogni spettatore): quella di dare un senso a qualche cosa che sembra non averne. È quello che è successo realmente a Los Angeles alla fine degli anni Sessanta, quando un biglietto criptato rivendicò la responsabilità di tre assassini, apparentemente senza alcun legame, il cui autore si nascondeva dietro lo pseudonimo di «Zodiac». Sulle sue tracce si mise il giornalista del San Francisco Chronicle Paul Avery (interpretato nel film da Robert Downey jr.) ma anche il vignettista dello stesso giornale Robert Graysmith (Jake Gyllenhaal), oltre all'ispettore David Toschi (Mark Ruffalo). Le loro strade spesso si intrecciarono, a volte si biforcarono o si urtarono, ma soprattutto sembravano girare a vuoto, visto che nella realtà nessuno fu mai accusato formalmente dei delitti attribuiti a «Zodiac» e la polizia non ha neppure potuto stabilire con esattezza quanti fossero stati i suoi delitti, perché a un certo punto smise anche di mandare messaggi cifrati. La scommessa di Fincher è stata quella di trasformare questo insieme contraddittorio di indizi e di tentativi di identificazioni nella materia stessa del film, senza abbellire, romanzare o enfatizzare alcunché, mettendo lo spettatore nella stessa situazione dei tre personaggi che vogliono indagare su «Zodiac»: farli girare a vuoto. O meglio: costringerli a saltare da un indizio a un altro, da un caso a un altro, da un'ipotesi a un'altra, senza offrire loro nessun appiglio di «verità». Per questo il film ha bisogno di tutto questo tempo (dura due ore e 36 minuti), perché invece di usare la macchina da presa per aiutare lo spettatore a dare un senso a quello che vede, la riduce a una specie di «spugna indiziaria», pronta ad aspirare tutto e il contrario di tutto. Per misurare il coraggio della sfida di Fincher basterebbe confrontare questo film con il celeberrimo Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, dichiaratamente ispirato ai delitti di «Zodiac», ma decisamente più carico di messaggi e di interpretazioni (anche molto ambigui, peraltro). Lo fa di sfuggita anche Fincher, proprio per sottolineare, attraverso una battuta di Toschi, come il cinema tenda a dare un'immagine e un senso al Male, funzionali forse al successo in sala ma certo lontanissimi dalla realtà. In Zodiac il Male è spogliato non solo di ogni attrazione ma anche di ogni senso. Non ha regole, non ha ragioni, non ha perché. E anche quando gli investigatori pensano di aver individuato il responsabile dei delitti in Arthur Leigh Allen (John Carroll Lynch), quello che si trovano di fronte è tutto meno che un antieroe del peccato. E per un regista che aveva contribuito con il suo Seven a rendere glamour proprio il delitto, il passo non è stato certo piccolo. Questo non vuol dire che il film manchi di suspense, tutt'altro. Caso mai c'è pochissimo sangue ma la scena nella cantina del proiezionista («Zodiac» sembra ossessionato dal film La pericolosa partita di Schoedsack e Pichel) la tensione è quasi insopportabile. Così, analizzando i comportamenti dei tre protagonisti, Fincher (con il suo sceneggiatore James Vanderbilt, che ha adattato i due libri scritti sul caso dal vero Graysmith) non cerca di inventarsi un finale che non è mai esistito ma sceglie di scavare nelle ossessioni che spesso si impadroniscono degli uomini e si trasformano in paranoia. Un sentimento che dopo l'11 settembre è diventato sempre più comune di là e di qua dell'Atlantico. |
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TORRESINO
- giugno 2007