Applausi,
commozione e un pizzico di stupore. Erano anni che Berlino non azzeccava
l'apertura, diciamolo. Invece
La
môme
(La vie en rose) di Olivier Dahan, 140 minuti sulla vita e l'arte
di Edith Piaf, è il filmone che ogni festival sogna per l'inaugurazione.
Un esempio, oggi sempre più raro, di buon cinema popolare, pieno di
ambienti, di personaggi, di sentimenti. Il ritratto di una figura
leggendaria sbozzato con tratto generoso e rotondo, senza esibire artifici
formali invadenti, ma evitando anche la retorica o le riverniciature di
nuovo di tanti pessimi biopic. Si comincia dalla fine, con il "passerotto"
(questo significa piaf in argot) che crolla in scena a New York, e si
torna all'inizio di tutto, a quell'infanzia che sembra uscita dal peggior
melodramma, con la mamma cantante di strada che la abbandona, il padre
contorsionista che la affida alla nonna, la nonna che la cresce fra le
ragazze del bordello che gestisce. E come se non bastasse la piccola Edith
dalla salute malferma perde la vista per riacquistarla dopo un
pellegrinaggio sulla tomba di Santa Teresa di Lisieux, poi perde la
puttana che le ha fatto da madre cantandole Je suis nue di
Mistinguett (Emmanuelle Seigner), ritrova il padre che se la porta nei
circhi e per strada, conquista a soli dieci anni il suo primo applauso
cantando con voce incredibile la Marsigliese a una folla commossa di
reduci dalla Grande Guerra.
Intanto continua lo slalom fra le epoche, l'infanzia si mescola a una
vecchiaia solo apparente perché Edith muore ad appena 47 anni ma ne
dimostra 70, consumata dall'alcol, dalla morfina, dal dolore. Ed eccola
ventenne cercare fortuna nelle strade di Montmartre, e trovarla quando
l'impresario di un cabaret alla moda (bel cameo di Gérard Depardieu) resta
colpito dalla sua voce e la fa cantare nel suo locale, le presenta artisti
e parolieri, le regala i primi successi e le prime fughe perché la môme,
la ragazzina, sulle prime è terrorizzata, non si distacca dal suo mondo di
alcolisti e macrò, anzi quando il suo benefattore è trovato ucciso viene
accusata di complicità con la mala. E qui come altrove il film passa fin
troppo in fretta. Ma ci sono da raccontare le amicizie, la nascita
leggendaria di certe canzoni (La foule,
Je ne regrette rien), la mamma che riappare in
miseria (è Clotilde Coureau), il poeta che affina il suo talento naturale,
brutalizzandola se occorre, l'amore immenso e tragico per il pugile Marcel
Cerdan, sposato e destinato a morire troppo presto (il piano sequenza in
cui si illude di averlo accanto senza sapere che è caduto in aereo è un
piccolo gioiello a parte); e poi la droga, l'America, l'Olympia, i dolori
più segreti. Ma sempre per piccoli tocchi, partendo dagli stati d'animo,
ignorando la tirannia di quei "fatti" che sono la palla al piede di ogni
biografia. Intanto Marion Cotillard, truccatissima ma mai ridicola,
invecchia, ringiovanisce, canta in playback, si confronta con la vera Piaf
rilanciandone, auguriamoci, la leggenda con questo film "per tutti", come
si diceva un tempo, che potrebbe accontentare, chissà, anche i palati più
esigenti. |
«Non
credo che l'essere infelici sia un prerequisito per essere grandi artisti,
o anche solo artisti. Al contrario, si deve far di tutto per non essere
infelici», ha detto Olivier Dahan a proposito della protagonista del
suo film,
La vie en rose.
Protagonista imponente, anche se fragile, e tale da incutere timore a
qualsiasi cineasta: Edith Piaf, icona della musica, minuta, nervosa e
presto minata nel fisico, ma dotata di una delle voci più appassionate e
appassionanti del mondo. Nacque povera, crebbe in un bordello, fu cieca
per un periodo dell'infanzia, cantò per strada, finì in galera. Ma la sua
voce era irresistibile, e "la Môme' (il passerotto: il suo soprannome e il
titolo originale del film) divenne un mito. Visse, amò, si drogò, ebbe un
sacco di batoste dal destino, morì giovane. «Je ne regrette rien»,
dice una delle sue canzoni più celebri, drammatico inno alla vita e
traccia ideale di un film che insegue la donna al di là degli stereotipi
dell'artista ma, quasi inevitabilmente, non riesce a non farsene
catturare: un po' troppo "mimetica" l'interpretazione di Marion Cotillard,
un po' troppo di maniera certe ricostruzioni. Ben costruito sui flashback,
La vie en rose
ha il coraggio di rischiare sul mélo ma, a volte, si lascia prendere la
mano dagli effetti e ricade nel luogo comune che vuole sfuggire. |