da La Repubblica (Roberto Nepoti) |
Con il recente The Good Shepherd, Bob DeNiro ci ha mostrato la faccia grigia dei servizi segreti americani. Va un po’ nella stessa direzione Breach - L'infiltrato, tratto da fatti autentici che il regista Billy Ray mette in scena senza enfasi drammatica, concentrando tutta l'attenzione sulle dinamiche psicologiche tra i due personaggi principali. Che sono Eric O'Neill, novizio agente dell'Fbi, e Robert Philip Hanssen, veterano prossimo alla pensione tutto famiglia, chiesa e siti pornografici. Incaricato da una risoluta collega (la interpreta Laura Linney) di affiancare Hanssen per raccogliere su di lui tutte le informazioni possibili, il giovane non sa ancora che l'uomo è sospettato di alto tradimento, né che la scelta è caduta su di lui perché cattolico come l'agente più anziano. Ed è la comune fede religiosa, alla fine, il cavallo di Troia che gli permette di smascherare l'astuto doppiogiochista, sviandone sospetti e cautele fino a farlo cogliere con le mani nel sacco. Ma chi è, in realtà, ad assumersi il ruolo di Giuda? Chi il traditore e chi il tradito? Fra toni di colore neutri e recitazione intonata all'"understatement", Ray costruisce un film di pura suspense psicologica, dove piccoli eventi (una cena con le rispettive mogli, un oggetto cambiato di posto) acquistano un rilievo decisivo. Risultato non banale. Anche se esci dal cinema con la voglia di saperne di più sul tipo di informazioni che Hanssen vendette per un quarto di secolo alla Russia, sovietica e post-comunista. |
da Il Foglio (Mariarosa Mancuso) |
Chi ama le spie – perché ha letto i romanzi di Graham Greene e di John Le Carré, oppure perché si è appassionato alle vicende di Kim Philby – trova più soddisfazione in Breach - L'infiltrato che nella storia della CIA messa in scena con l'occhialuto Matt Damon. Il controspionaggio complottista, con la Baia dei Porci e le società segrete intrecciate alle tragedie di famiglia, era piuttosto noioso. Il doppiogiochista dell'FBI, assieme al giovanotto che per far carriera molla i sistemi informatici e accetta di star dietro a un caso dove l'imputato è il suo superiore, non fa staccare gli occhi dal film (bisogna imparare dai maestri: Il nostro agente all'Avana era un venditore di aspirapolvere che spediva ai servizi segreti inglesi il disegno dell'ultimo modello arrivato in negozio, senza che nessuno lo sgamasse, mica un tipo alla James Bond). Billy Ray racconta la vera storia dell'agente Robert Philip Hanssen, in carcere dal 2001 per alto tradimento. Per 25 anni vendette segreti di stato ai sovietici, accumulando un milione e mezzo di dollari in diamanti e banconote (naturalmente, era mosso da più nobili motivazioni, ma non è che i soldi gli spiacessero). Non poteva scegliere attore più adatto di Chris Cooper, il collezionista di cimeli nazisti in American Beauty, prima di abbracciare Kevin Spacey sotto la pioggia. Nei confronti del giovanotto che dividerà la stanza con lui, e forse un domani potrebbe sostituirlo, si mostra antipatico al massimo grado. Sembra arrabbiato con il mondo, diffidente come solo può esserlo chi conosce il tradimento, suadente quando decide di ingraziarsi l'ingenuo ragazzotto. Come in tutti i bei film di spie – l'ultimo pervenuto è Le vite degli altri – non siamo mai sicuri di niente (anche se sappiamo dai titoli di testa come andrà a finire)... |
|
TORRESINO
- giugno 2007