L'American
Beauty è una rosa, una rosa rossa e snella coltivata con pignola
passione da una moglie frustrata. La American Beauty è anche
un'adolescente bionda, intravista dal protagonista tra le majorettes
del college e subito idealizzata come una nuova Marilyn, ricoperta,
nei sogni e nei desideri, di petali purpurei. Ma la bellezza americana
è anche, sardonicamente, una vita suburbana agiata ma nevrotica, spenta,
incolore, nonostante lo schermo rimandi i bagliori squillanti di un
iperrealismo lynchiano. Sam Mendes
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Emanuela Martini - Film Tv |
Sembrerebbe tutto già visto: la critica della vita suburbana, il colletto bianco frustrato che si ribella ai miti e ai riti del quartiere residenziale e manda tutto al diavolo, la moglie ambiziosa e imperiosa che desidera solo mantenere le apparenze, la casa perfetta e le rose nel giardino davanti, la figlioletta ribelle in tempesta ormonale, i vicini strani, l'innamoramento dell'uomo adulto per la bella ragazzotta, e perfino il morto che parla - ricordate Viale del tramonto? - raccontando in prima persona la sua vicenda e le tappe che hanno portato alla sua fine. Sembrerebbe tutto visto e invece American Beauty (il nome di una sontuosa rosa rossa, quella che campeggia sui manifesti su un bel pancino adolescente, e un titolo carico di ironia) ha abbastanza stile e idee per rendere tutto originale, e si merita i riconoscimenti che, a partire dalle candidature ai Golden Globe, cominciano a piovergli addosso. La felice alchimia del film nasce da una sceneggiatura intelligente e ben scritta firmata da Alan Ball, noto sinora solo per degli sceneggiati tv, da una orchestrazione di rimarchevole eleganza e precisione ad opera di Sam Mendes (il regista teatrale inglese di Cabaret e di The Blue Room, al debutto cinematografico) e da un gruppo di attori eccellenti. Kevin Spacey non è mai stato così bravo, anche se resta sempre ambiguamente sgradevole. Annette Bening, nel ruolo di sua moglie, perfetta padrona di casa suburbana e agente immobiliare non particolarmente fortunata, tira fuori una notevole grinta autoironica... Senza arrivare agli estremi crudeli ed eversivi di Happiness da una parte o, dall'altra, alla contrastata nostalgia di Pleasantville, American Beauty traccia, in forma di favola nera, un quadro feroce e bruciante del perbenismo borghese, della crisi del maschio che invecchia, dei sogni sbagliati delle adolescenti, dello iato tra genitori e figli. Anche se in America i nemici del film, che ci sono (non si è trattato di un trionfo critico assoluto), lo hanno accusato di essere, come i confratelli film sulla crisi di Suburbialand, il prodotto degli incubi della mezza età di qualche tycoon hollywoodiano: Spielberg (visto che il film è prodotto da Dreamworks, anzi, è uno dei suoi primi prodotti veramente adulti)? Brillante e tragico, enfatico ed economico, commovente e sgradevole, American Beauty è invece un film fuori genere, tra satira, autoritratto e fantasia, che consente molte letture. Ed è, soprattutto, un film di stile. Dalla fotografia di un vecchio maestro come Conrad Hall (il cinematographer di Nick Manofredda e di Butch Cassidy), che costruisce fluidamente le immagini di una realtà così curata da sembrare finta, al montaggio impeccabile, a una sapiente costruzione delle inquadrature, American Beauty è certamente il miglior debutto dell'anno, e un film che, miracolosamente, si può anche rivedere continuando a scoprirvi cose nuove. |
Irene Bignardi - La Repubblica |
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