Le vite
degli altri
(Das Leben der
Anderen) |
miglior film straniero |
da La Repubblica (Roberto Nepoti) |
Pluripremiato
ovunque, trionfatore dell'Award europeo e vincitore dell'Oscar 2006 per la
migliore opera straniera,
Le vite degli altri si colloca in primissima
linea tra quei film che, ormai, autorizzano a parlare di una "nouvelle vague" tedesca. L'azione si svolge a Berlino Est, alla metà degli anni 80.
Un esperto funzionario della Stasi, Gerd Wiesler, è incaricato di
sorvegliare Georg Dreymann, drammaturgo di successo che il ministro della
cultura vorrebbe in odore di dissidenza. In realtà, si tratta di una
macchinazione ai danni dello scrittore, cui il politico intende sottrarre
la bella compagna, l'attrice Christa-Maria. Il poliziotto piazza microfoni
e comincia la sorveglianza a tempo pieno della coppia. Poco a poco, però,
l'esperienza lo trasforma, facendogli sentire l'abiezione del proprio
ruolo e spingendolo, quasi suo malgrado, a proteggere Dreymann. |
da Il Corriere della Sera (Maurizio Porro) |
Poche volte un regista deb come il tedesco Henckel von Donnersmarck ha fatto subito centro. Non solo per l' Oscar, ma perché il suo film è emozionante, intelligente, scritto benissimo, senza sbavature retoriche: molto complesso, ma anche molto semplice. Brecht, se ci sei batti un colpo. Spie tristi della Stasi, Berlino Est ' 84, quando un potente del regime, invaghito di un' attrice, decide di pedinare, di auscultare la vita di un drammaturgo non particolarmente dissidente. Il fattore umano e la complicità giocheranno brutti scherzi. Potente metafora non solo politica, non solo anticomunista - guai usarla come clava reazionaria! - è la malinconica conquista delle virtù che resistono alla Storia (attualità d' intercettazioni), universale riflessione sulla vita virtuale, ascoltata nei nastri. Il goal è l' umana debolezza. Finale splendido, attori super. Magico Ulrich Muhe: in cuffia soffre in prima e terza persona. |
da Film Tv (Aldo Fittante) |
Un esordio folgorante questo Le vite degli altri giustamente premiato in ogni dove (Oscar americani, europei, tedeschi...), che si rintana nella brechtiana Germania dell'Est dominata dalla Stasi, la terribile polizia segreta che spiava tutto e tutti, in una sorta di Grande Fratello esatto contraltare ideologico del Big Brother capitalistico: là, nel comunismo, nessuno avrebbe voluto essere controllato, visto, sezionato, bloccato; qui, nel decadente Occidente, c'è la fila per farsi notare, rinchiudersi in case, isole, fattorie, stalle, ville affollate di pupe e di secchioni, music farm e via autoflagellandosi. Il debuttante Florian Henckel von Donnersmarck, a dispetto del nome con origini italiane nel sangue (che dimostra parlando sorprendentemente la nostra lingua), per due anni ha visto qualsiasi audiovisivo sull'argomento e ha letto qualunque supporto cartaceo, fossero gli ex dossier della Stasi, le testimonianze di chi subì i soprusi, i libri che, dal crollo del Muro di Berlino in poi, sono stati scritti a futura memoria. Nelle sue pregne e puntuali immagini il rigore storico e filologico si accompagna all'estraniamento della rielaborazione artistica: è il parto più fascinoso di quest'opera che non vuole giudicare e dimostrare nulla, solo riprendere un momento della lunga parentesi buia a cui una parte della Grande Germania fu assoggettata. E, tra l'altro, dall'ottica di uno strato sociale, quello degli intellettuali, divisi tra complicità e sospetti, mute e sofferenti resistenze, privilegi vergognosi che comunque chiedevano in cambio dazi insostenibili anche ai più irrigimentati servitori del Partito. E proprio uno di questi, lo scrittore e drammaturgo Georg Dreyman, coccolato dal Comitato Centrale e invidiato anche per la sua relazione con la bellissima attrice Christa-Maria Sieland (la seducente Martina Gedeck) a rinsavire, dopo il suicidio di un suo amico-collega, e a cominciare una lotta clandestina che non potrà che sfociare nella tragedia. Tra questi due personaggi, lo straordinario Ulrich Mühe nei panni dello "spione" Gerd Wiesler, chiamato dai suoi capi ad ascoltare ogni singola mossa dei presunti traditori del regime, un uomo solo, spietato innanzi tutto con se stesso, che cena a base di conserve riscaldate e, una volta al mese, si concede contatti fisici con una prostituta. È lui il simbolo, l'emblema, di una disfatta, che è politica ed è umana, ed è a lui che il finale (tra i più emozionanti dell'ultimo cinema) è dedicato, con la cinepresa che lo pedina dentro quel giubbottino da impiegato postale, ancora inconsapevole di essere stato uno scomodo testimone di una brutta Storia. |
da Ciak (Alberto Pezzotta) |
Chi ha visto Heimat 3 ricorda l'operaio dell'ex Ddr che imita la voce stentorea del dittatore Erich Honecker. Ma nel 1984, chi osava prenderlo in giro dall'altra parte del Muro rischiava grosso. In una scena agghiacciante di Le vite degli altri, un novellino racconta alla mensa della Stasi (la polizia segreta) una barzelletta sul Compagno Presidente. Non sa che al tavolo di fianco ci sono il capitano Wiesler (Muhe) e il suo capo Grubitz (Tukur: erano su fronti opposti in Amen, di CostaGavras). Il primo rimane gelido, il secondo improvvisa uno scherzo crudele: ma raccontare gli sviluppi sarebbe rovinare una delle tante sorprese del film. E meno si racconta la storia, meglio è. Wiesler e Grubitz, istigati dal bieco ministro Hempf, mettono sotto sorveglianza il commediografo Georg Dreyman (Koch, il nazista "buono" di Black Book): «L'unico nostro scrittore letto in Occidente che non sia un dissidente». Possibile che sia davvero un duro e puro? Il bello è che Dreyman è davvero un fedele alla linea, e neanche tra le pareti di casa osa criticare il Partito che da anni impedisce di lavorare al suo regista di fiducia. Wiesler lo spia 24 ore al giorno: e mentre diventa un voyeur, spera morbosamente in un cedimento. Ma nulla andrà come previsto. Snobbata dai festival "maggiori", l'opera prima di Florian Henckel von Donnersmarck è uscita in Germania l'anno scorso, ed è stata un caso: ottimi incassi e una pioggia di premi, ultimo dei quali l'Oscar come miglior film straniero. Tanto più sorprendente, in quanto il suo autore era uno sconosciuto. E si tratta comunque di un gran film, di quelli che lasciano freddi certi critici cinefili, e che comunque non si fanno più: sceneggiatura di ferro, personaggi a tutto tondo, ottimi attori, regìa classica, suspense da thriller che si evolve e non cede neanche negli ultimi 15 minuti, ambientati nella Germania riunificata. Di recente alcuni film storici (Rosenstrasse della von Trotta, La caduta di Hirshbiegel, La Rosa Bianca - Sophie Scholl di Rothemund) hanno riportato il cinema tedesco sulla scena internazionale. Ma anche se l'hanno detto in pochi, si tratta di ricostruzioni rassicuranti ed edulcorate, dove si dimostra che anche a Berlino c'erano eroi antinazisti, o che anche Hitler era un uomo in carne e ossa. Henckel von Donnersmarck invece non solo affronta un passato più recente, più bruciante e ancora più rimosso: evita anche gli stereotipi e le tesi precotte. Finora ci avevano provato solo documentari come Aus Liebe zum Volk (Per amore del popolo) di Maurion e Sivan e film come Good Bye Lenin! di Becker: che però si svolge dopo il crollo del Muro, e la butta in farsa. Le vite degli altri non strizza l'occhio, anche se non è privo di un amaro umorismo. Ci fa entrare in quel mondo, ci inchioda allo schermo, e ci lascia trarre le conclusioni. E chi si aspetta una denuncia degli orrori della Stasi, è spiazzato dal fatto che il "buono" del film, Dreyman, in realtà è un comunista privilegiato, abituato alla politica delle tre scimmiette. E solo una prova dell'intelligenza drammaturgica del regista: la vittima viene presa di mira da un carnefice, Wiesler, che paradossalmente ha i suoi stessi ideali. Basta ciò a mostrare la stortura di tutto uno Stato. E quando Dreyman si decide a un atto di coraggio, non è perché illuminato sulla via di Damasco: è un gesto del tutto naturale. Alcuni hanno accusato il regista di avere avuto la mano leggera nel parlare della DDR. Ma il film riesce benissimo a ricostruire il clima di persecuzione kafkiana, le violenze fisiche e psicologiche, lo squallore della vita quotidiana in uno dei regimi più tetri del Novecento. Senza mai puntare al sensazionalismo. Le torture che insegna Wiesler ai suoi allievi sono incruente e quasi "umane": ma non per questo sono meno terrificanti. E che alla fine il film si apra a una commovente nota di speranza, è una conquista difficile, che non dissipa le ombre. Tanto i cattivi se la cavano sempre. |
cinélite TORRESINO all'aperto: giugno-agosto 2007