Chi non
conosce Heimat (1 e 2) ha tempo fino all’uscita italiana nelle sale (la
Mikado la prevede per febbraio) per recuperarlo in video (circa 15 ore e 23 ore
rispettivamente), chi ha ancora nostalgia
di Hermann Simon e Clarissa,
di Schnüsschen, Helga e gli altri, del puzzle di pubblico e
privato, di
musica e sentimenti che Edgar Reitz aveva costruito, partendo da Schabbach nell’Hunsrück (Heimat)
ed approdando al fervore culturale della Monaco anni ‘60 (Heimat
2), farà
bene ugualmente a dare una rinfrescata alla propria memoria poiché l’immergersi
nel racconto di Heimat 3 -
Cronaca di una svolta epocale
necessita di precisi punti di riferimento personali, dato che Reitz si tuffa
senza preamboli nel fatidico 1989 e, tra quanti assistono in diretta al crollo
del Muro di Berlino, mette, fianco a fianco, con la programmatica casualità che
lo contraddistingue, proprio
Hermann e
Clarissa.
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Sono invecchiati, sono stati lontani quanto noi dai loro personaggi, ma si
ritrovano in un attimo presi dall’antica passione e, in una notte d’amore,
liquidano in un poche frasi il flash back narrativo (“una volta eravamo
innamorati - 17 anni fa, negli anni ’70 - siamo stati travolti da nostalgie e
contraddizioni…”), si buttano a corpo morto in una relazione matura che per
troppo tempo avevano procrastinato.
Lui acclamato compositore (una figlia,
Lulù, nata
dal matrimonio con Schnüsschen, lasciata alla madre), lei ex violoncellista, ora
voce ardita della neue musik (figlio e madre-padrona a carico), decidono ora di
mettere su casa ristrutturandone una che Clarissa ha scoperto nella campagna
lungo il corso del Reno. Guarda caso siamo proprio nell’Hunsrück… Heimat 3
riallaccia i fili di coincidenze esistenziali intense e spesso lancinanti, ma il
passato riemerge con armoniosa noncuranza, il presente sembra spianare ogni
attrito e difficoltà per Hermann e Clarissa. La Germania unita non solo
riconfigura il concetto di "patria" (cadono i confini e il tempo, impalpabile e
sfuggente, è la nuova "heimat"), ma offre facili opportunità al popolo tedesco:
per quelli dell’ovest è comodo trovare manodopera a basso prezzo, per gli
ex-comunisti è l’occasione per scoprire l’imprenditorialità del lavoro. Sono
Gunnar,
Hudo,
Tobi e
Tillmann,
i carpentieri di casa Simon, i primi nuovi personaggi che arricchiscono il
tessuto connettivo di Heimat 3,
ma presto si riaffacciano sulla scena i fratelli di Hermann,
Ernst e
Anton, il
primo solitario ed eccentrico, l’altro (“indomabile e orgoglioso come l’Hunsrück”)
tenace industriale della Simon Optic, con tormentati rapporti familiari... È
strabiliante la forza affabulatrice di Reitz, la sua capacità di ricreare con
pochi tocchi, un cinema di grande suggestione, atmosfere che coinvolgono,
rendono partecipi, danno un senso di vissuta “patria cinematografica”.
Le
premesse perché Heimat 3
sia il vero evento di questa 61a Mostra ci sono tutte.
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Curiose
le dinamiche “partecipative” che scaturiscono al Lido. Da una parte gli ululati
che provengono dalla terrazza del Casinò dove i fotografi cercano di attirare
l’attenzione dei divi per i loro scatti, dall’altra gli squittii da
concerto-rock adolescenziale che hanno fatto da cornice all’arrivo in passerella
di Tom Cruise. Da una parte il feeling giovanilista che affolla la proiezione
del film di Gregg Araki (Misterious
Skin,
ancora uno stile personalissimo, ma meno estremizzante e più raffinato, ancora
una storia torbida, di disagio, infanzie sotto trauma, sessualità perversa,
psicologie deviate, baseball e alieni…), dall’altro
l’abbraccio commosso (concreto, di persona) con Edgar Reitz di un pubblico maturo , nell’età e nella
coscienza di aver preso parte ad una maratona cinematografica (6 film, 11 ore!)
indimenticabile nella sua affascinante complessità, nella sua superba
composizione, nella sua contagiosa intensità emotiva.
HEIMAT 3
è un affresco sulla Germania riunificata (Il
popolo più felice del mondo
è il titolo del primo film/episodio), ma è soprattutto un mosaico di personaggi
e psicologie che portano alla luce la diversa prospettiva esistenziale, greve e
capitalistica, in cui sono stati immersi gli anni 90. Non più la tenace, sofferta
storia
nazionale
del primo novecento (Heimat),
non più il fervore artistico-trasgressivo dei ’60 (Heimat 2); ora, incernierata
nella relazione ormai matura di
Hermann
e
Clarissa,
c’è una vicenda di largo respiro che si dipana tra eventi di riscontro sociale (Campioni
del mondo
e
Arrivano i Russi
- film 2 e film 3), ma che si incentra sui nuovi
protagonisti venuti dall’Est e sulla saga dei Simon. I lavoranti
Gunnar
e
Hudo
hanno destini contrapposti: il primo viene lasciato dalla moglie e perderà le
coordinate del proprio essere finendo addirittura in carcere per guida
“alcolica”, il secondo ha piene soddisfazioni lavorative e familiari, ma alla
soglia dei cinquanta avrà in ballo una relazione con una ventenne. Se
Tillman
scopre l’amore di
Moni
e apre un negozio di prodotti elettronici a Schabbach,
Tobi,
geniale carpentiere dall’animo freak, tornerà in Sassonia a confrontarsi con i
propri legami sentimentali (e con una figliastra mongoloide).
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Ma è la storia
della famiglia Simon che via via riprende la centralità del racconto (ultimi tre
film:
Stanno tutti bene
–
Gli eredi
–
Congedo da Schabbach):
Anton
muore d’infarto prima di vedere la sua azienda fallire, nelle mani dei figli
incompetenti e gelosi;
Ernst,
reietto dai suoi concittadini che gli hanno rifiutare il progetto di un museo
per
ospitare la sua preziosissima collezione di dipinti, si schianta con il suo
aereo contro la Lorely Rock;
Hermann
riesce a mantenere saldo il suo amore con
Clarissa,
nonostante una provvisoria separazione e il sopraggiungere in lei di una forma
tumorale. Ma è la figlia
Lulù-Simona
il fulcro finale dell’opera; sul suo volto (e su una sua lacrima) si chiude,
dopo il capodanno del 2000,
HEIMAT 3:
vedova, con il migliore amico malato di AIDS, si ritrova ad affrontare il futuro
“senza amore, senza lavoro, senza prospettive, senza protezione”. Ma il
suo piccolo
Lukas
sembra avere, al pianoforte, il tocco di nonno Hermann…
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