Occorre
ripercorre il cammino cinematografica di
Kim Ki-duk per non trovarsi
spiazzati di fronte alla furia vendicatrice che anima il nuovo
Pietà,
vincitore al 69° Festival di Venezia.
L’impatto che aveva accompagnato la presentazione, sempre al Lido
(2000) di
L’isola,
era stato altrettanto scioccante: allora non ci aveva del tutto
convinti, nella sua sconvolgente, masochistica brutalità (con quel
“cespo" di ami da pesca a martirizzare la gola e le cavità più intime
di una giovane donna). Un appannamento critico riprovevole poiché poi
la personalità autoriale del regista coreano esplose poi ai nostri
occhi attraverso preziosi quadri cinematografici quali
Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera,
Ferro 3,
La samaritana e fu chiaro
come il senso di colpa, il perdono, la redenzione al pari del
desiderio d’amore e del dramma della solitudine fossero sentimenti,
situazioni che solo in un cinema estremo come il suo potevano trovare
compiuta, intesa espressione.
Con questo suo 18° lavoro Kim Ki-duk ci immerge “senza pietà” in un
ambiente degradato e in una realtà sociale manifatturiera fatta di
artigiani, piccoli operai ridotti sul lastrico in un paesaggio urbano
(Seul) non certo a misura d’uomo, che perde sempre più ogni
prospettiva di “respiro” architettonico per ridursi ad un formicaio di
palazzi fatiscenti e precarietà esistenziali.
È qui che opera Kang-do cinico esattore di debiti insoluti, azzerabili
solo mediante un perverso meccanismo assicurativo: la rottura di una
gamba, di un braccio servono a rimborsare il prestito, lasciandosi
inesorabilmente alle spalle uomini menomati e famiglie distrutte.
Kang-do non prova alcuna pietà, non si pone domande. Si adagia nella
sua squallida solitudine, vive in una casa imbrattata di rifiuti
organici, in un letto che ne ospita le onanistiche pulsioni sessuali.
L’arrivo di una donna che si dichiara sua madre, e che si mette al suo
totale servizio per ripagarlo dell’abbandono che gli ha riservato alla
nascita, incrina sempre più fortemente la realtà esistenziale di Kang-do che fatica ad accettare la nuova situazione e tanto più il
nuovo rapporto umano che lo coinvolge.
Allo spettatore sono lasciati vari indizi di un sottotesto che è in
sincrono con la dinamica della narrazione, ma che risultano
perturbanti rispetto alla linearità dell’evoluzione del racconto
stesso. Come si innesta in esso l'incipit avvolto nel buio (una sedia
a rotelle, un gancio, una catena, un suicidio...), quale significato
attribuire a quell'anguilla (tenuta amorevolmente nell’acquario e poi
affettata per pranzo), a quella gallina, a quel coniglio? E perché
mamma Mi-Son cuce un maglione sottodimensionato per Kang-do? Quale
importanza attribuire all’albero sotto cui la donna chiede a Kang-do
di scavare in futuro la sua tomba?
Non tutte le domande devono avere per forza risposta in
Pietà, ma il
senso tragico del titolo diventa sempre più pregnante mentre il dolore
“di ritorno” delle vittime viene via via a scardinare l’asettica
esistenza di Kang-do e il rapporto madre-figlio esplode in
rivelazioni di crudeltà e vendetta.
La pietà è quella che Kang-do non ha saputo cogliere, è quella che
riscopre quando ormai è troppo tardi, è quella che lo spettatore
percepisce, sofferta, verso questi esseri umanai abbrutiti oltre ogni
logica, verso una (in)civiltà che ha perso ogni baricentro morale.
Ma nell’accostarsi al cinema di Kim Ki-duk non bisogna, travolti dal
trauma etico, perdere di vista la forza figurativa dell’insieme: quei
vicoli sporchi e angusti, quelle officine “chiuse” al mondo da
serrande scalcinate, quelle palazzine degradate e dismesse fanno da
contesto essenziale al dramma dei protagonisti, così come quella
striscia di sangue che si disegna sulla strada nel finale “firma” un
percorso di straziante “punizione” per la quale non resta che la pietà.
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