È
giunto il momento anche nella carriera di Kim Ki-duk
per interrogarsi sul senso di quella ridda selvaggia che è sempre
stata la sua carriera. Fin dagli esordi (19 lungometraggi in 18 anni,
pur con una pausa di tre anni dal 2008 al 2011), il suo cinema si è
aggirato aspro e scatenato tra le pulsioni, i desideri e i dubbi degli
esseri umani. Spesso manca una spiegazione razionale per i
comportamenti dei suoi personaggi. Il concetto di razionalità e di
reale, nel cinema di Kim, sono del tutto interni, soggettivi (Real
Fiction si chiamava un suo esperimento teorico datato
2000), forse per questo così respingenti per il pubblico, soprattutto
nel suo paese natio, dal momento questi due elementi non seguono
alcuna consuetudine quando si tratta di scandagliare l’animo e il
corpo di individui lugubri e marginali, privi di qualunque
connotazione socialmente etichettabile. L’ultimo Kim Ki-duk,
One On One,
che ha aperto le Giornate degli Autori nell’ambito di Venezia
71, si propone per la prima volta di riflettere idealmente (ed
esplicitamente) su quei canoni rappresentativi che guidano, con una
coerenza e una lucidità invidiabili, un intero percorso autoriale.
Alcune personalità dell’esercito, di differenti gradi, vengono rapite
da un gruppo di uomini che le tortura e li induce a confessare per
iscritto le azioni misteriose che hanno compiuto in una determinata
data. Sembrerebbe opera di un’organizzazione paramilitare, ma in
realtà si tratta di due sfere di potere (e umane) che si stanno
scontrando.
In una fase creativa estremamente autoriflessiva, che non di rado
utilizza l’anafora come uno strumento tagliente in grado di svelare le
ragioni (ma anche la vacuità delle ragioni) dell'umano agire, Kim ha
realizzato probabilmente uno dei suoi film più dolorosi e disillusi.
Sadico ed esplicito nel ripagare i cinici soprusi della vita con la
loro stessa moneta,
One On One
cala i personaggi in contesti quotidiani per poi rapirli e portarli su
uno spettrale palcoscenico di cartapesta dove possono essere spogliati
della loro dignità, fronteggiando i fantasmi del passato. Rispetto ad
altre opere dell'autore, gli si può rimproverare una certa ridondanza
verbosa: eppure sono fuor di dubbio l'efficacia e la potenza del
materiale filmico, per tacere dello shock di uno spettatore che si
ritrova a fare i conti con un sistema sociale in cui il sopruso è la
moneta corrente. La rappresentazione di questo sopruso è una novità
nel cinema di Kim: per la prima volta il motore degli eventi non è una
pulsione umana ben connotata e definita nel tempo e nello spazio, ma
un meccanismo di homo homini lupus eletto a linea guida di un
intero popolo. In altre parole,
One On One
è un film meno “universale” (le virgolette sono d’obbligo) e molto più
“coreano” rispetto a qualunque altro titolo della filmografia di Kim,
da sempre votata all’astrazione. Lo sguardo verso il suo Paese è
sconsolato e feroce, e rispecchia le scelte marginali e rinunciatarie
proprie del suo autore, da sempre in feroce contrasto con i suoi
concittadini. Anche quando la rappresentazione dei personaggi di
One On Onesi
affievolisce e cessa, si ha l’impressione che essa non termini
completamente, ma che continui a perpetuarsi altrove. Un dolore che è
in grado di rigenerarsi, di autoalimentarsi, e dal quale non è
possibile mai realmente fuggire. Un film dal quale lo spettatore in
grado di stare al gioco può uscire arricchito ed emozionato, se
accetta tutte le regole del gioco.
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