Debito di sangue
(Blood Work)
Clint Eastwood - USA
2002 - 1h 50'
sito ufficiale
McCaleb (Clint Eastwood), ex agente
dell’FBI in pensione perché colpito da infarto durante
l’inseguimento di un serial killer, viene convinto da una donna
sconosciuta (Wanda De Jesus) a riprendere le indagini. Contro il
parere della sua cardiologa (Anjelica Huston) e con l’aiuto di
un vicino di barca (Jeff Daniels) McCaleb mette a rischio la
propria vita per rintracciare l’omicida che lo ha costretto ad
occuparsi personalmente del caso...
Sappiamo che nella fabbrica americana di best seller spesso i
romanzi sono scritti come sceneggiature in vista della prossima
trasposizione sul grande schermo e che spesso addirittura i
personaggi prefigurano nei tratti fisici e comportamentali
qualche grande divo del momento. Non possiamo sapere se Michael
Connelly, quando ha scritto il suo romanzo Debito di sangue,
avesse in mente Clint Eastwood, certo è che il film che quest’ultimo
ne ha tratto riesce ad essere un condensato di tutti quegli
elementi del personaggio-Clint e dei suoi film precedenti che ce
lo hanno fatto amare.
“Cosa c’è di classico di questi tempi, McCaleb?” gli
chiede qualcuno nel film. “C’è Clint” risponde in coro la
sala alla proiezione! Di classico c’è anche la storia del
poliziotto ossessionato dalla giustizia che si mette alla
ricerca di un killer che lo sfida personalmente e che vuole a
tutti i costi che sia lui a dargli la caccia. Di classico c’è il
tono crepuscolare da noir conferito alla storia dal fatto che il
poliziotto non sia più giovane, ma anzi sia reduce da un infarto
con relativo trapianto di cuore.
Di classico c’è il modo in cui Eastwood, regista oltre che
interprete, ci racconta i fatti. Di classico c’è in questo film
tutto il repertorio dei film precedenti interpretati o diretti
da Clint.
Se Dirty Harry Callahan ha fatto rivivere il genere noir dopo
decenni di silenzio rilanciando la mitologia del giustiziere che
porta nella metropoli il western, attraverso la sua rilettura in
chiave anni settanta dell’eroe individualista solitario e
indisciplinato, qui Callahan alias McCaleb esibisce la fragilità
del personaggio non solo nei tratti fisici invecchiati ma
soprattutto nella cicatrice sul petto (e nel cuore) che diventa
una sorta di emblema della sua vulnerabilità.
Anche lo stesso dinamismo del personaggio, che, pur affaticato
dai suoi problemi cardiaci, si muove ininterrottamente per tutto
l'arco del film all’inseguimento dell’assassino (senza
controfigure come Clint orgogliosamente rivendica), rientra
nell’esigenza di ricondurre l’eroe ad una dimensione primaria,
enfatizzato nei suoi aspetti corporei, secondo la tradizione non
solo del noir ma anche del western.
Il lavoro di Eastwood-regista
non opera attraverso citazioni o
fratture nei confronti del classico, ma cerca di rinnovare
dall’interno quel sistema di segni. E se il finale adombra una
possibilità di risvolto sentimentale con la giovane donna che lo
ha spinto a cercare l’assassino della sorella, è il fallimento
del rapporto con l’amico che mantiene la vicenda all’interno di quell’atmosfera malinconica che caratterizza il genere.
L’amicizia ha sempre una parte importante nei film di Eastwood
giocati sul rapporto tra il personaggio apparentemente tutto
d’un pezzo del protagonista con comprimari fragili, deboli o
emarginate. Chi non ricorda l’adolescente hippy di
Breezy,
la giovane prostituta (Sondra Locke) di
The Gauntlet
(L’uomo nel mirino), il nipotino di Red in
Honkytonk Man,
e soprattutto l’indimenticabile Caribù (Jeff Bridges) compagno
di avventura di Eastwood in Una
calibro 20 per lo specialista (Michael
Cimino 1974).
E sembra proprio Caribù resuscitato (quel Caribù per la cui
morte silenziosa nella macchina guidata da Clint tutti ci siamo
commossi) il personaggio del vicino di barca Buddy Noone (Jeff
Daniels), ex surfista, indolente e sgangherato dal quale McCaleb
si fa aiutare nelle indagini perché da solo non può guidare la
macchina. Che con questo capovolgimento di ruoli Clint abbia
voluto ammiccare allo spettatore, preannunciandogli proprio la
soluzione finale del film?
Blood Work è diretto
e interpretato con quella laconicità di taglio e secchezza di
scatti che hanno ormai consacrato Eastwood come un classico del
cinema di Hollywood, degno erede di Hawks, Mann, Ford, Siegel,
autori cui egli stesso riconosce di essere debitore. Passato
indenne attraverso le sperimentazioni d’autore degli anni
settanta e le poetiche postmoderne successive Clint si è
mantenuto fedele alla sua idea di cinema: un cinema che deve
essenzialmente raccontare delle storie, senza caricare le tinte,
senza esagerare, preferendo togliere anziché aggiungere.
Cristina Menegolli
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V.O.S.
novembre-dicembre 2002
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Piccoli affari sporchi
(Dirty
Pretty Things)
Stephen
Frears - Gran Bretagna 2002
- 1h 38'
sito ufficiale
Se ci si
aspetta da questo film un’indagine sulla condizione degli
immigrati a Londra e magari un’ipotesi di soluzione dei problemi
ad essa connessi (come qualcuno in conferenza stampa a Venezia
ha auspicato) non si può che rimanere delusi. Se invece ci si
avvicina a questo Dirty Pretty
Things, opera ultima del regista inglese
Stephen
Frears
, come ad un thriller un po’ anomalo, si rimane colpiti
dalla condizione del protagonista e dei suoi “aiutanti” e dalla
rappresentazione del mondo in cui essi vivono.
Okwe (Chiwetel Ejiofor) è un immigrato nigeriano che vive a
Londra, e arrotonda quel che guadagna di giorno come autista di
taxi e lavorando come portiere di notte in un hotel. Ha un letto
in subaffitto presso una giovane e ritrosa ragazza turca, Senay
(Audrey Tautou), che fa la donna delle pulizie nello stesso
albergo, pur non avendo un permesso di lavoro. Una notte Okwe fa
una macabra scoperta in una stanza dell’hotel: cercare di
comprendere cosa sia accaduto e ancora accada in quella stanza
lo porta a invischiarsi in una situazione apparentemente senza
via d’uscita, costretto a essere o vittima o carnefice. In
pericolo è soprattutto chi gli è più vicino: Okwe ha molte
risorse, ma queste possono rivelarsi per lui un’arma a doppio
taglio…
Si deve già alla sceneggiatura la capacità di costruire il
percorso di scoperta e la ricerca di salvezza del protagonista
attraverso due spazi contrapposti: da un lato lo spazio aperto
delle strade, dei mercati, della comunità, dove brulica la vita,
dove ci si arrangia e spesso ci si aiuta; dall’altro lo spazio
chiuso, in primo luogo quello dell’hotel, metafora di una
società che nasconde in luoghi invisibili i suoi orrori:
silenzioso, asettico, si rivela covo di sfruttatori, albergo di
morte.
Frears, soprattutto attraverso gli stacchi di montaggio,
inserisce nelle pieghe della narrazione situazioni visivamente
ambigue, che aggiungono mordente alla rappresentazione di questa
vulnerabile umanità. E’ l’esercito degli immigrati non regolari,
la cui esistenza è dominata dalla precarietà, con gradazioni
diverse: alcuni non hanno il permesso di soggiorno, altri non
hanno il permesso di lavoro, qualcuno non può più andare via. E’
il mondo, come dice il protagonista
, di quelli che nessuno vede,
che lavorano di notte, o in luoghi che ufficialmente non
esistono, ricattabili da tutti e da tutti sfruttati.
Il regista riesce a farci percepire questa disperazione, ma
senza la rabbia e la causticità del passato (My
Beutiful Laundrette,
Sammy e Rosie vanno a letto),
e alcune battute hanno più l’effetto di alleggerire il clima che
non quello di graffiare. Così le due anime del film, quella
dello spaccato sociale e quella thriller, rimangono
sostanzialmente in equilibrio, grazie soprattutto ad una ripresa
di ritmo nella parte finale, che riesce a sorprendere anche lo
spettatore più smaliziato.
Degli attori, oltre allo sguardo dolente del protagonista,
colpisce la sfacciata simpatia
del “cattivo” Sergi Lopez (Una
relazione privata) e la trasformazione di Audrey Tautou,
la Amelie del
film di Jeunet, anche se, di
fronte all’ammirato stupore di molti per la sua capacità di
calarsi nel personaggio di un’immigrata turca, non si può non
concordare con la lapidaria risposta del regista: “è
un’attrice; in fondo il suo mestiere è proprio quello di
recitare”.
A margine una notazione curiosa: qual è il libro che l’amico
portantino consiglia al protagonista ? I miti greci !
Licia Miolo
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A Snake of June (Rokugatsu
no hebi)
Shiya Tsukamoto - Giappone
2002
- 1h 27'
E’ stata indubbiamente una scelta coraggiosa quella della giuria
della sezione Controcorrente (che ci sia stato lo zampino del
giurato Ghezzi?) di attribuire il Premio Speciale a quest’opera
di Shinya Tsukamoto, regista di culto per una fascia abbastanza
ristretta di cinefili. D’altra parte rientrava proprio nello
spirito della sezione privilegiare pellicole innovative
soprattutto sul piano del linguaggio e, se non tutte quelle che
si sono viste rispondevano a queste aspettative, questa non le
ha certo deluse.
A Snake of June
è un film non facile (difficilmente troverà canali di
distribuzione), ma che merita di essere visto per la potenza
delle immagini e per l’abilità della regia nell’adeguare le
scelte stilistiche ai contenuti espressi.
Ciò che colpisce sin dalle prime immagini è il colore della
pellicola o meglio l’assenza di colori: il film è girato in
bianco e nero, così come
Tetsuo: the iron man,
il primo lungometraggio del giovane Tsukamoto e
Bullet Ballet,
visto a Venezia qualche anno fa. Ma qui la monocromia del bianco
e nero è virata al blu… Altro elemento spiazzante per le
abitudini di visione dello spettatore è la dimensione dello
schermo: un quadrato, al cui interno i corpi vengono ripresi
prevalentemente a figura intera, per una scelta precisa del
regista in contrapposizione al cinemascope dei pink film
(film soft core) molto diffusi in Giappone. E se la storia
raccontata potrebbe rientrare nella categoria dei soft o meglio
degli hard core la potenza visionaria di Tsukamoto ne fa tutt’altra
cosa!
La vicenda rispecchia il panorama piuttosto sconfortante delle
relazioni interpersonali del Giappone di oggi, descritto
abbondantemente nei romanzi di Yoshimoto e Murakami: una coppia
borghese vive con apparente serenità un rapporto dal quale il
sesso sembra completamente escluso. Lei (Asuka Kurosawa) lavora
come consulente telefonica presso un ente che si occupa di
igiene mentale e lui (Yuji Kotari) è un importante uomo d’affari
che passa il tempo libero a pulire ossessivamente la casa,
perché la fobia per lo sporco è tale da fargli assumere delle
pastiglie che rendono inodori i propri escrementi. Questa serena
vita familiare viene sconvolta dall’arrivo di una busta
indirizzata alla donna contenente delle foto che la ritraggono
nell’atto di masturbarsi. Il misterioso ricattatore la costringe
a pratiche di autoerotismo sempre più hard, cui lei si sottopone
inizialmente controvoglia, poi con sempre maggiore soddisfazione
per la consapevolezza di essere spiata e ripresa dallo
sconosciuto. E se per la donna è l’essere guardata la fonte del
piacere, per il marito, al contrario, sarà il guardare scene
lascive in un club, dove è stato trascinato dal medesimo
ricattatore- benefattore, che farà rinascere il desiderio
sopito.
Se nelle altre opere di Tsukamoto questo risveglio dei sensi è
generato da uno stimolo esterno, la violenza, stavolta nasce
invece dal corpo stesso. Ed è sui corpi che si sofferma
maggiormente lo sguardo del regista: corpi singoli che non si
toccano mai, a figura intera perfettamente racchiusi dal
quadrato dello schermo, in particolare il corpo dell’attrice
Asuka Kurosawa, la cui bellezza di porcellana, come in una
fotografia di Araki, ambiguamente contrasta con le pratiche
talvolta degradanti a cui è costretta.
Lo sfondo è quello di una città martellata da una pioggia
ininterrotta di Giugno, dove l’unico elemento naturalistico è
costituito dall’immagine ricorrente di una pianta di ortensia
con una lumaca. E qui ci viene in aiuto il regista stesso che
dichiara che proprio un’ortensia e una chiocciola erano
protagoniste di un racconto da lui scritto a sette anni e
pubblicato sul giornale della scuola. “Non mi ricordo il suo
testo ma per me, che ero un bambino estremamente timido, fu la
prima opera originale ad essere apprezzata dagli adulti. Quando
ripenso al disegno che accompagnava il tema mi torna alla mente
l’aria blu cristallina che circondava l’ortensia. Ritengo che
sia stato proprio quel blu a orientare nella giusta direzione il
film ambientato nella stessa stagione delle piogge. Volevo
provare a vedere cosa c’è di puro, amabile e nobile nell’infima
volgarità.”
Cristina Menegolli
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