Se
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candidature vi sembran poche… L'affacciarsi sulla scena (cinematografica)
italiana di
Shakespeare in Love ha coinciso con l'investitura delle
nomination
agli oscar: miglior film, miglior regista, miglior attrice protagonista,
migliori costumi, miglior sceneggiatura originale, fotografia, scenografia…
Aspettando il fatidico verdetto (ma che ce ne cale?!) cerchiamo di entrare
in sintonia critica con quest'opera che di shakespeariano ha il gusto del
paradosso e della soavità, del contorsionismo narrativo e della
immediatezza comunicativa, ma che non è l'ennesima trasposizione
di una piece del "grande bardo", piuttosto una rivisitazione
storico-biografica "alla maniera di".
Del drammaturgo di Stratford il cinema si è impossessato da sempre,
con una rinnovato interesse proprio due anni fa (Riccardo
III, Romeo&Juliet,
Looking for Richard, La
dodicesima notte, Hamlet),
ma qui il gioco si fa sottile, biograficamente inattendibile e citazionisticamente
impeccabile. E' l'estate del 1593, a Londra l'età elisabettiana
fa sfoggio di sfarzo e cultura, ma la vita del popolo fa tappa tra miseria
e pestilenze, tra stamberghe e postriboli. Occorre tenere presente questo
quadro storico per capire l'importanza e lo sviluppo della commedia
e del teatro. La gente comune affolla le due "sale" cittadine
(il Rose e il Curtain) con gioiosa partecipazione, ma anche la regina
ama deliziarsi con sontuose rappresentazioni nei palazzi di corte. Non
per niente è l'era di Marlowe e Shakespeare. Eppure
"il nostro" è in crisi creativa: si barcamena economicamente
promettendo il suo nuovo lavoro ad entrambi gli impresari, ma non riesce
a portare a termine il suo Romeo e Ethel, la figlia del pirata.
L'amico Marlowe (Rupert Everett) gli consiglia un'impostazione narrativa
amorosamente più tormentata ("due famiglie rivali"),
il bel Ned-Mercuzio (Ben Affleck) lo convince che un titolo come Romeo
e Giulietta suona meglio, ma Will (Joseph Fiennes), donnaiolo impenitente,
confida nell'ispirazione di una nuova musa… Questa si concretizza, inaspettatamente,
nella figura aristocratica, dolce e volitiva, di Lady
Viola (Gwyneth Paltrow) o meglio di Thomas Kent, giovane aspirante attore
che si fa avanti per un'audizione. Il camuffamento è necessario
perché in quel tempo il teatro è inibito alle donne, i
travestimenti femminili sono di prammatica per protagonisti e comprimari
della scena, la sensibilità del gentil sesso è affidata
alla disponibilità delle voci bianche e al tocco psicologico
dell'autore del testo. Inutile dire che il trucco presto si disvela
proprio nell'intimità del rapporto tra il drammaturgo e il suo
primo attore, così che la nuova commedia prende forma in simbiosi
con la passione che divampa tra Will e Viola…
La banalità della situazione (per altro un classico della commedia
degli equivoci) viene nobilitata da un prezioso
intarsio
metalinguistico tra l'evolversi del racconto e i riferimenti all'universo
letterario shakespeariano. Come in Romeo e Giulietta dapprima il
protagonista è distratto da un'infatuazione fuorviante (Rosalina).
All'audizione Viola declama i versi di I due gentiluomini di Verona,
(alla cui rappresentazione i due si sono poco prima incontrati). Il ragazzino
che, a teatro,
si
entusiasma per le scene più truculente è il ritratto giovanile
di John Webster, commediografo della crudeltà (Il diavolo bianco,
La duchessa di Amalfi). L'invito finale della regina a scrivere
qualcosa di divertente per l'Epifania si fonde con la partenza dell'amata,
per mare, verso le Americhe, a delineare la stesura di La dodicesima
notte in cui l'eroina (Viola!) calcherà le scene in abiti maschili.
Ma su tutto prevale, nell'emozione figurativa cinematografica, l'accurata,
perfetta ricostruzione del pathos dell'incontro attori-pubblico nella
messa in scena finale. La spavalda verve recitativa del cast (del film
e della commedia), l'ammiccante complicità di sguardi e sentimenti
tra Will e Viola, l'impetuosa spontaneità dei londinesi assiepati
nel teatro, addossati al palco e ai loro beniamini, elevano alla massima
potenza la valenza culturale e spettacolare di Shakespeare in Love.
Eppure il film di John Madden
(e dello sceneggiatore Marc Norman affiancato
dal grande Tom Stoppard - ricordate Rosencrantz
e Guidenstern sono morti?), così filologicamente corretto,
così modernamente rivisitato (lo "sceneggiatore" Shakespeare
ricorre perfino ad uno psicanalista ante litteram) ci ha solo raramente
emozionato e vagamente divertito. Alla
lunga i parallelismi arte-vita ci sono sembrati forzati e infantili,
le scintille d'ispirazione tanto ridondanti quanto quegli iterati scarabocchi
sulla carta bianca nell'atto creativo, davvero insopportabile la melensaggine
musicale che tace (alfine!) solo nel momento in cui si compie il dramma
sulla scena (splendido!). Forse è vero che Shakespeare in
Love coglie appieno il fermento di sintonia drammaturgica tra l'autore
elisabettiano e il suo pubblico (anche nelle sue debolezze e ingenuità),
ma è anche vero che l'autocompiacimento di Stoppard e soci è
fin troppo sopra le righe e la regia privilegia i luoghi comuni… Ma
non date troppo peso ai nostri sofismi critici, Shakespeare in Love
è fatto per piacere al grande pubblico e per deliziare gli intellettuali
shakespeariani. Hollywood on Avon val bene una pioggia di
oscar.
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