"Un
film inerte sul piano drammaturgico" è questa la frase che brucia di più, a
livello critico, nella polemica veneziana attorno a
The Magdalene
Sisters di Peter
Mullan. La stroncatura stilistica è di Francesco Bolzoni su L'Avvenire e
non si può non essere imbarazzati nel contraddire una "nostra" fonte così
autorevole. La questione sta semmai non nella forma, ma nei contenuti:
"storicamente falso" lo definisce sempre Bolzoni e allora occorre fare
ulteriori riflessioni sulla "storicità" della fiction, su concetti come
rappresentazione e verosimiglianza...
I conventi di Magdalene in Irlanda erano istituti cattolici gestiti dalle
Sorelle della Misericordia. Ospitavano giovani donne lì destinate per uscire da
un'esistenza precaria e/o peccaminosa. Secondo le informazioni fornite dalla
produzione le ragazze arrivavano da famiglie ed orfanatrofi ad espiare peccati
contro il perbenismo e la rigida morale d'Irlanda. Certo è che la segregazione
che dovevano subire comportava un gramo lavoro nella lavanderia, nessuna
retribuzione, un regime quasi carcerario, con poco cibo, svariate umiliazioni e
violenze, nessuna speranza.
Questa è almeno la tesi che porta avanti Peter Mullan che dichiara di essersi a
lungo documentato rimanendo sconvolto dalla brutalità "medioevale" dell'ambiente
(e l'ultimo convento Irlandese ha chiuso nel 1996!), che ha affidato il ruolo di
una suora comprimaria proprio ad una ex sorella della Misericordia, che ha
trovato tutt'oggi un tale ostruzionismo al portare alla luce questa vicenda da
dover trasferire le riprese dall'Irlanda alla Scozia, che ha avuto personali,
amare esperienze consimili in realtà di volontariato sociale dirette da suore,
che si è permesso di affermare, in tono accorato, che "il cattolicesimo deve
riscoprire la compassione" e che occorre superare certi atteggiamenti "talebani"
(con fare decisamente provocatorio)...
Ma se accantoniamo le parole della conferenza stampa (che hanno scatenato, più
della proiezione stessa, l'indignazione di alcuni) e torniamo ad occuparci del
film, ci troviamo di fronte ad un racconto cinematograficamente asciutto e
aspro, "orrido" non solo nel cupo incalzare di vessazioni e crudeltà, ma pure
nella disperata solitudine che avvolge le protagoniste, lontane da qualsiasi
spiraglio di salvezza.
Mullan
ambienta la vicenda negli anni sessanta e prende a modello tre nuove
recluse: Margaret, colpevole di aver subito uno stupro, e Rose, ragazza-madre,
entrambe reiette dalle rispettive famiglie; Bernadette un'orfana scoperta
in atteggiamenti discutibili, tali da "indurre in tentazione"!
Il loro trauma da sradicamento non è nulla in confronto all'angoscia
esistenziale che le attende: lavoro duro, proibizione di qualsiasi
forma di comunicazione (tra le recluse e tanto più con l'esterno),
umiliazioni e percosse. Le suore a cui sono affidate vengono rappresentate
da Mullan come disumani aguzzini, il sacerdote preposto come un essere
abietto e lascivo, le finalità educative travisate da un bieco bigottismo,
posposte ad un'insana avidità di denaro e potere.
L'istituzione cattolica ci fa certo una magra figura, ma lo stile
asciutto non ha pretese di documentario, le reiterate angherie, proprio
nei liberisti anni '60, assumono il significato di sconcertante denuncia
a qualsiasi residuo di arretratezza culturale (il "processo"
iniziale a Margaret, in cui la musica sovrasta i dialoghi, assume
un'emblematica universalità), il
pathos di Mullan è spiazzante a tutti i livelli (a chi lo lodava per
il suo pamphlet laico ha ribadito la sua personalità cattolica), la
dinamica drammaturgica ha un impatto dirompente. Ciò che resta nello
spettatore è imbarazzo, fastidio, angoscia... solidarietà. Il lieto
fine scritto ad hoc per le protagoniste rende ancor più evidente la
rappresentatività della rappresentazione, il valore simbolico di una
narrazione in cui la verosimiglianza gioca tutta a sfavore di un cattolicesimo
datato, ma fa vibrare di commossa partecipazione verso ideali di tolleranza
e compassione. È l'obiettivo di Peter Mullan che sa di muoversi nell'ambito
della finzione e di potersi prendere licenze anche provocatorie. Il
Leone d'Oro non è un'offesa al mondo cattolico, ma un meritato riconoscimento
ad un cinema intenso e significativo.
ezio leoni -
La Difesa Del
Popolo
-
8 settembre 2002
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