Solo
nei romanzetti d’appendice la provvida mamma pone al figlioletto la
fatidica domanda: “che farai da grande?”. Ma, se mia madre mi
avesse posto la domanda in età di ragionevole consapevolezza, avrei
risposto: “vorrei fare il Piero Tortolina”. Che significa: dedicare al
cinema competenza e avvedutezza, tenace collezionismo e impegno
divulgativo, passione e rischio culturale.
Piero Tortolina
è stato tutto questo e anche più. La sua sagacia e la sua ironia credo si
evincano anche dall’intervista
che Nicolò (Menniti) ed io abbiamo avuto occasione di raccogliere nel 2003 per la
stesura del volume Luci sulla città - Padova e il cinema.
Ora che se n’è andato (29/5/2007) mi rendo conto che “da grande” (lo sono
già) non riuscirò mai ad essere come lui, ma soprattutto che non potrò più
averlo come saltuario interlocutore per consigli, rimbrotti, condivisioni.
Mancherà a tutti, anche a me.
e.l |
È
vero, raggiunta una certa età non è un evento troppo straordinario la
morte di un uomo. È nella nostra natura, lo sappiamo tutti.
Michelangelo Antonioni avrebbe
compiuto 95 anni il 29 settembre, e da più di vent’anni, a causa di una
malattia
che
l’aveva colpito, aveva progressivamente perso le capacità verbali e
motorie. Ma nonostante questo è una scomparsa che scalfisce una certezza,
un ancoraggio, e segna ancor di più un limite - che di fatto è già memoria
storica, oggetto di studio, e quindi potenzialmente infinito - sul quale è
necessario soffermarsi. Una morte che giunge come una emblematica
risposta, o conseguenza, alla medesima sorte che pochi istanti prima, ad
altre latitudini, toccava a Ingmar Bergman.
Due sguardi che hanno saputo
rafforzare le fondamenta del Cinema, lasciando un’eredità imprescindibile,
probabilmente ancora sviscerabile, impalpabilmente pervasiva, strutturale
e innovativa.
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Bergman
e Fellini, un’educazione cinematografica che ha segnato una generazione di
appassionati frequentatori di cineforum negli anni ’60.
Fellini come estro
creativo assoluto, non imbrigliabile in canoni tematici, ma espressione di
una personalissima
esuberanza artistica. Bergman come compiuto analista dei tormenti
esistenziali dell’essere umano, non estraniante e algido come Dreyer;
meno ermetico, nel rigore e nel misticismo, di un
Bresson, ma
capace di delineare un percorso figurativo e contenutistico di variegata,
affascinante complessità.
Curiosamente per meglio decodificare l’opera di
Ingmar Bergman
(scomparso nella sua isola di Fårö, giusto tre mesi fa) occorre fare
riferimento ad un film di Billie August,
Con le migliori intenzioni (su sceneggiatura di Bergman stesso) e
vista la mole della sua filmografia (46 lungometraggi dal 1945 al 2003)
puntare sulla lettura (un termine così legato all’approccio
critico del suo cinema!) di alcuni capolavori che sono pietre miliari del
suo cammino d’autore.
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