È
vero, raggiunta una certa età non è un evento troppo straordinario la
morte di un uomo. È nella nostra natura, lo sappiamo tutti. Michelangelo
Antonioni avrebbe compiuto 95 anni il 29 settembre, e da più di vent’anni,
a causa di una malattia che l’aveva colpito, aveva progressivamente perso
le capacità verbali e motorie. Ma nonostante questo è una scomparsa che
scalfisce una certezza, un ancoraggio, e segna ancor di più un limite -
che di fatto è già memoria storica, oggetto di studio, e quindi
potenzialmente infinito - sul quale è necessario soffermarsi Una morte che
giunge come una emblematica risposta, o conseguenza, alla medesima sorte
che pochi istanti prima, ad altre latitudini, colpiva Ingmar Bergman. Due
sguardi che hanno saputo rafforzare le fondamenta del Cinema, lasciando
un’eredità imprescindibile, probabilmente ancora sviscerabile,
impalpabilmente pervasiva, strutturale e innovativa.
Antonioni è stato un autore rigoroso, versatile, indecifrabile e lontano
da un certo clamore pubblico che riuscivano a riscuotere altri grandi
maestri come
Fellini, De Sica, Visconti. In lui viveva un germe che,
attraverso l’istanza di visione, produceva uno sguardo – della realtà
circostante, degli oggetti, delle persone, dei sentimenti, del tempo –
attivo, antinaturalistico, penetrante e interrogativo. Ed è in questa
peculiarità dello sguardo, inevitabile contingenza necessaria e
propulsiva, che si forma il cinema di Michelangelo Antonioni. Un cinema
metadiscorsivo, dove avviene una continua interrogazione dello sguardo,
che si traduce per lo spettatore in una visione inquieta e dilatata,
destabilizzante, perturbante.
Così operando Antonioni si distacca dalla tradizione neorealista e con la
trilogia dei sentimenti (L’avventura, La notte, L’eclisse) e poi
Deserto
Rosso sancisce quelle che diventeranno delle costanti tematiche, formali,
stilistiche di un cinema inconfondibilmente personale e di difficile
identificazione. Lo spazio e il paesaggio acquisiscono un’importanza al
pari di quella dell’attore e del soggetto: spesso lo sguardo della
macchina da presa si sofferma sullo spazio vuoto, in contemplazione, prima
dell’arrivo del corpo dell’attore, che si trova a essere materiale
plastico plasmabile dal regista, e non interprete di psicologie. L’occhio
dell’autore quindi non è mai passivo, e cerca di andare sempre più a
fondo, come fa il protagonista di Blow-up con i suoi scatti. E’ dalla metà
degli anni ’60, proprio con Blow-up e poi Zabriskie Point e
Professione:
reporter, che Antonioni allarga l’orizzonte dello sguardo verso nuove
terre, passando per la Swinging London e le università americane, e
forzando ancora di più l’interrogazione di quella realtà che sempre più si
manifesta come irriproducibile e ininterpretabile univocamente.
La narrazione, del resto, non può che adeguarsi alle rarefazioni che
dominano la visione: dialoghi intermittenti, dove spesso si parla d’altro
o niente di così importante, salti percettivi, camminate senza meta,
sparizioni e quindi la presenza di una assenza. E’ tutta l’eredità che ci
ha lasciato il maestro – che comprende oltre ai lungometraggi,
documentari, corti e mediometraggi, sceneggiature, opere incompiute,
articoli di critica cinematografica – a costituire il limite dentro il
quale il cinema ora è costretto a muoversi. Un limite che probabilmente,
visti i tempi, sarà difficile superare. Ma che ha dato e darà
un’importante lezione. Ne sono un esempio: Wong Kar-Wai, Patrick Tam, Nuri
Bilge Ceylan, fino ad arrivare al recente
Come l’ombra di Marina Spada.
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Alessandro Tognolo
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