Bergman
e Fellini, un'educazione cinematografica che ha segnato una generazione di
appassionati frequentatori di cineforum negli anni '60.
Fellini
come estro creativo assoluto, non imbrigliabile in canoni tematici, ma
espressione di una personalissima esuberanza artistica. Bergman come
compiuto analista dei tormenti esistenziali dell'essere umano, non
estraniante e algido come Dreyer; meno ermetico, nel rigore e nel
misticismo, di un
Bresson,
ma capace di delineare un percorso figurativo e contenutistico di
variegata, affascinante complessità.
Curiosamente per meglio decodificare l'opera di Ingmar Bergman (scomparso
nella sua isola di Fårö, giusto tre mesi fa) occorre fare riferimento ad
un film di Billie August,
Con le migliori intenzioni
(su sceneggiatura di Bergman stesso) e vista la mole della
sua
filmografia (46 lungometraggi dal 1945 al 2003) puntare sulla lettura (un
termine così legato all'approccio critico del suo cinema!) di alcuni
capolavori che sono pietre miliari del suo cammino d'autore.
Il Bergman più
conosciuto ed amato è quello che ha saputo dar voce alle ambasce del
vivere, guardare alla sofferenza della vita,
all'incombere della morte, all'ansia della fede e al bisogno d'amore. Il
cavaliere Antonius Block che gioca a scacchi con la morte in
Il settimo sigillo
è un fulgido squarcio dell'immaginario filmico bergmaniano, così come lo è
lo sguardo nostalgico e rasserenato del professor Borg di fronte al suo
Posto delle fragole,
ma come dimenticare, in
Luci d'inverno,
la disperata dichiarazione d'affetto di Marta al pastore Ericsson e la
precarietà di lui (tra sconforto e speranza) negli spazi vuoti (di fedeli
e di “risposte”) della sua chiesa?
Ma
l'espressionismo intenso, la tensione metafisica di queste opere ho
oscurato nel tempo il tocco lieve e appassionato con cui Bergman
(esordiente con
Crisi - 1945) scandagliò
nei primi anni '50 i legami sentimentali e le dinamiche di coppia:
da Monica e il desiderio a Una vampata d'amore, da Una
lezione d'amore a
Sorrisi di una notte d'estate
che, con
la Palma d'oro a Cannes (1955), anticipò la consacrazione autoriale
de Il settimo sigillo e Il posto delle fragole (1956-1957).
E se l'ansia di un misticismo laico si concretizzò (dopo la luce
"miracolosa" della speranza in
La fontana
della vergine) nella trilogia Come
in uno specchio-Luci d'inverno-Il silenzio (1960-1961-1962), resta
altrettanto fondamentale nella complessità del suo percorso, lo sguardo
sofferto e dubbioso con cui delineò la figura dell'artista, il senso
ultimo della rappresentazione, l'incantesimo stesso della messa in scena
cinematografica, l'ambigua identificazione di arte e vita: dal vecchio
proiettore rinvenuto nel granaio di Prigione (1949) agli attori
magicamente vivi nella teatro in miniatura di L'ora del lupo
(1966), dalla scommessa tra l'illusionista Vogler e il dottor Vergérus
e dal dualismo tra magia e razionalismo, tra l'essere e l'apparire (Il
volto - 1958 ) alla muta ossessione di Elisabeth, l'attrice, alla
simbiosi con Alma, l'infermiera, al pessimismo allucinato di crisi d'identità
del singolo e della società (Persona - 1965).
Proprio
Persona
può essere considerato una svolta nella carriera artistica di Bergman
(corrispondente ad una sua profonda crisi depressiva - durante la quale
ne elaborò il canovaccio – e alla decisione di ritirarsi nell'isola
di Fårö). Il film segnò una scossa anche stilistica con una provocazione
figurativa che coniuga le intrusioni simboliche (la luce abbagliante
dei carboni, il darsi fuoco dei bonzi, le foto che testimoniano lo sterminio
nazista) con una ricerca estetica estraniante e con un intricato teorema
di volti, anime e maschere.
Devono passare sette anni per arrivare, tra opere intense (La vergogna,
Passione) e spiazzanti (L'ora del lupo), ad un ulteriore
capolavoro. In
Sussurri e grida
(1972) l'irruzione della sofferenza e della
morte ridimensiona ogni diatriba umana, rielabora i rapporti affettivi,
ricompone il senso del vivere in una pietà muliebre che sa placare la
disperazione dell'anima. La grandezza di Bergman sta in una raggiunta
maturità d'autore che sa concretizzare in opere compiute e incisive
la ricchezza del proprio mondo interiore e la lucida analisi delle contraddizioni
sentimentali. Il taglio televisivo di
Scene da un
matrimonio (1972)
non ne limita lo straordinario impatto emotivo: i sei capitoli del dramma
matrimoniale di Marianne e Johan fotografano con inesorabile amarezza
e appassionata conflittualità la crisi della coppia moderna.
Ma
è l'azzardo di mettere in scena
Il flauto magico
di Mozart che l'anno seguente riporta l'attenzione internazionale sull'arte
maiuscola di Bergman, capace di amalgamare la fascinazione del racconto
favolistico con l'originalità della rappresentazione in una straordinaria
partitura cinematografico-musicale. E se al crudo scontro psicologico
tra madre e figlia di Sinfonia d'autunno (1977), che rivela un
certo manierismo, si contrappongono in chiusura di carriera altri quadri
di mirabile complessità e perfezione creativa (da Dopo la prova
– 1983 - a Sarabanda – 2003) è
Fanny
e Alexander (1982)
che si delinea come summa di uno straordinario, variegato percorso registico:
un'opera sontuosa e articolata (oltre tre ore), tesa a dare estrema
concretezza e soave spettacolarizzazione ad una realtà umana che fa
perno sulla sicurezza dei legami familiari, ma che deve trovare conforto
alle disillusioni del vivere in un universo altro (dentro e fuori di
sé), confidando nella ingenuità della giovinezza, nella magia dell'arte,
nella contiguità di un mondo fantastico che solo può concederci l'agognata
serenità.
ezio leoni
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La Difesa del Popolo
11
novembre 2007
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