magg-giu-lugl-ago
settembre
2007

trimestrale di cinema, cultura e altro...

n° 20
Reg.1757 (PD 20/08/01)

pag. 3

Ingmar Bergman (1918-2007)

     

      Bergman e Fellini, un'educazione cinematografica che ha segnato una generazione di appassionati frequentatori di cineforum negli anni '60. Fellini come estro creativo assoluto, non imbrigliabile in canoni tematici, ma espressione di una personalissima esuberanza artistica. Bergman come compiuto analista dei tormenti esistenziali dell'essere umano, non estraniante e algido come Dreyer; meno ermetico, nel rigore e nel misticismo, di un Bresson, ma capace di delineare un percorso figurativo e contenutistico di variegata, affascinante complessità.
Curiosamente per meglio decodificare l'opera di Ingmar Bergman (scomparso nella sua isola di Fårö, giusto tre mesi fa) occorre fare riferimento ad un film di Billie August, Con le migliori intenzioni (su sceneggiatura di Bergman stesso) e vista la mole della sua filmografia (46 lungometraggi dal 1945 al 2003) puntare sulla lettura (un termine così legato all'approccio critico del suo cinema!) di alcuni capolavori che sono pietre miliari del suo cammino d'autore.
Il Bergman più conosciuto ed amato è quello che ha saputo dar voce alle ambasce del vivere, guardare alla sofferenza della vita, all'incombere della morte, all'ansia della fede e al bisogno d'amore. Il cavaliere Antonius Block che gioca a scacchi con la morte in Il settimo sigillo è un fulgido squarcio dell'immaginario filmico bergmaniano, così come lo è lo sguardo nostalgico e rasserenato del professor Borg di fronte al suo Posto delle fragole, ma come dimenticare, in Luci d'inverno, la disperata dichiarazione d'affetto di Marta al pastore Ericsson e la precarietà di lui (tra sconforto e speranza) negli spazi vuoti (di fedeli e di “risposte”) della sua chiesa?

Ma l'espressionismo intenso, la tensione metafisica di queste opere ho oscurato nel tempo il tocco lieve e appassionato con cui Bergman (esordiente con Crisi - 1945) scandagliò nei primi anni '50 i legami sentimentali e le dinamiche di coppia: da Monica e il desiderio a Una vampata d'amore, da Una lezione d'amore a Sorrisi di una notte d'estate che, con la Palma d'oro a Cannes (1955), anticipò la consacrazione autoriale de Il settimo sigillo e Il posto delle fragole (1956-1957). E se l'ansia di un misticismo laico si concretizzò (dopo la luce "miracolosa" della speranza in La fontana della vergine) nella trilogia Come in uno specchio-Luci d'inverno-Il silenzio (1960-1961-1962), resta altrettanto fondamentale nella complessità del suo percorso, lo sguardo sofferto e dubbioso con cui delineò la figura dell'artista, il senso ultimo della rappresentazione, l'incantesimo stesso della messa in scena cinematografica, l'ambigua identificazione di arte e vita: dal vecchio proiettore rinvenuto nel granaio di Prigione (1949) agli attori magicamente vivi nella teatro in miniatura di L'ora del lupo (1966), dalla scommessa tra l'illusionista Vogler e il dottor Vergérus e dal dualismo tra magia e razionalismo, tra l'essere e l'apparire (Il volto - 1958 ) alla muta ossessione di Elisabeth, l'attrice, alla simbiosi con Alma, l'infermiera, al pessimismo allucinato di crisi d'identità del singolo e della società (Persona - 1965).
Proprio
Persona può essere considerato una svolta nella carriera artistica di Bergman (corrispondente ad una sua profonda crisi depressiva - durante la quale ne elaborò il canovaccio – e alla decisione di ritirarsi nell'isola di Fårö). Il film segnò una scossa anche stilistica con una provocazione figurativa che coniuga le intrusioni simboliche (la luce abbagliante dei carboni, il darsi fuoco dei bonzi, le foto che testimoniano lo sterminio nazista) con una ricerca estetica estraniante e con un intricato teorema di volti, anime e maschere.
Devono passare sette anni per arrivare, tra opere intense (La vergogna, Passione) e spiazzanti (L'ora del lupo), ad un ulteriore capolavoro. In
Sussurri e grida (1972) l'irruzione della sofferenza e della morte ridimensiona ogni diatriba umana, rielabora i rapporti affettivi, ricompone il senso del vivere in una pietà muliebre che sa placare la disperazione dell'anima. La grandezza di Bergman sta in una raggiunta maturità d'autore che sa concretizzare in opere compiute e incisive la ricchezza del proprio mondo interiore e la lucida analisi delle contraddizioni sentimentali. Il taglio televisivo di Scene da un matrimonio (1972) non ne limita lo straordinario impatto emotivo: i sei capitoli del dramma matrimoniale di Marianne e Johan fotografano con inesorabile amarezza e appassionata conflittualità la crisi della coppia moderna.
Ma è l'azzardo di mettere in scena
Il flauto magico di Mozart che l'anno seguente riporta l'attenzione internazionale sull'arte maiuscola di Bergman, capace di amalgamare la fascinazione del racconto favolistico con l'originalità della rappresentazione in una straordinaria partitura cinematografico-musicale. E se al crudo scontro psicologico tra madre e figlia di Sinfonia d'autunno (1977), che rivela un certo manierismo, si contrappongono in chiusura di carriera altri quadri di mirabile complessità e perfezione creativa (da Dopo la prova – 1983 - a Sarabanda – 2003) è Fanny e Alexander (1982) che si delinea come summa di uno straordinario, variegato percorso registico: un'opera sontuosa e articolata (oltre tre ore), tesa a dare estrema concretezza e soave spettacolarizzazione ad una realtà umana che fa perno sulla sicurezza dei legami familiari, ma che deve trovare conforto alle disillusioni del vivere in un universo altro (dentro e fuori di sé), confidando nella ingenuità della giovinezza, nella magia dell'arte, nella contiguità di un mondo fantastico che solo può concederci l'agognata serenità.

ezio leoni - La Difesa del Popolo  11 novembre 2007