L’avventura
Michelangelo Antonioni – [b/n] Italia/Francia 1960 - 2h 20’
PALMA D’ORO AL FESTIVAL DI CANNES

Anna, una ragazza borghese, figlia d’un ambasciatore a riposo e amante di Sandro, un giovane architetto, viene invitata con l’amica Claudia sullo yacht d’un ricco costruttore. I crocieristi sbarcano su uno scoglio delle isole Eolie, dove nasce una vivace discussione fra Sandro e Anna. Al sopraggiungere di un acquazzone, tutti si affrettano verso lo yacht; ma, al momento d’imbarcarsi, si accorgono che Anna è sparita. Lo yacht riparte per evitare il pericolo di una tempesta, mentre Sandro e Claudia restano per continuare le ricerche. Lentamente tra di loro nasce un rapporto d’amore e, segretamente, ciascuno spera che la sparizione di Anna sia definitiva. I due raggiungono Taormina, dove incontrano i compagni di crociera; nessuno chiede notizie di Anna e tutti accettano la nuova relazione tra Sandro e Claudia. La notte stessa, Sandro fa l’amore con una ragazza incontrata casualmente. Poi, i due si riavvicinano, pur consapevoli della fragilità di ogni rapporto.
Girato in condizioni realmente avventurose, su uno scoglio delle isole Eolie, in mezzo al mare in tempesta, e altrettanto avventurosamente presentato a Cannes, dove fu accolto da entusiasmi e proteste, il film finì, nonostante tali difficoltà, per consacrare Antonioni alla fama internazionale, e resta una delle sue opere più celebri. Strutturato come una sorta di giallo psicologico, esso contiene tutti i temi cari al regista: la precarietà dei sentimenti, l’incomunicabilità, l’indagine delle figure femminili. Estremamente suggestiva la presenza del paesaggio siciliano: evitando ogni compiacimento folkloristico, l’autore gli ha affidato un ruolo quasi preminente, utllizzandolo per frammentare il ritmo dell’azione e per esprimere l’estraneità dei personaggi agli ambienti che li ospitano. Opera contorta e problematica, L ‘avventura si conclude coerentemente con un finale aperto: l’ultima inquadratura è emblematicamente divisa a metà, in bilico, come l’autore, fra pessimismo e ottimismo.

Blow-up
Michelangelo Antonioni
– Italia/Gran Bretagna 1966 – 1h 51’
GRAN PREMIO AL FESTIVAL DI CANNES
scheda

Thomas, un giovane fotografo inglese alla moda, decide di realizzare un fotolibro sulla realtà londinese. Si sofferma in un parco del l’East End e qui riprende l’abbraccio tra un uomo e una donna; quest’ultima se ne accorge e lo insegue fino a casa per ottenere la consegna della pellicola: pur di riaverla, si offre di fare all’amore con lui. Ma Thomas sostituisce di nascosto il negativo e comincia a sviluppare e ingrandire le fotografie. Di vengono cosi visibili dei particolari inquietanti: la mano di un uomo che impugna una pistola e una sagoma sull’erba che potrebbe essere un corpo senza vita. Thomas ritorna al parco e trova effettivamente un cadavere, ma il giorno successivo esso è scomparso. Thomas peregrina attraverso la città, incapace di distinguere le impressioni dalla realtà e finisce presso un campo da tennis in cui alcuni giovani mimano un incontro privi di racchette e di palle.
Più che nei tentativi di descrivere l’atmosfera della swinging London degli anni ‘600 negli ammiccamenti alla ‘rivoluzione giovanile’, la parte più convincente del film risiede nella descrizione del rapporto tra il protagonista e la realtà. Anni prima, il regista aveva diretto in teatro il dramma di Isherwood ‘I am a camera’; qui - prendendo spunto da un bel racconto di Cortàzar - torna sulla meta fora della fotografia per riflettere sul rapporto tra le immagini e le cose: ad ogni blow-up (ossia a ogni successivo ingrandimento foto grafico), la realtà rivela nuovi, insospettabili dettagli che gli occhi non erano in grado di percepire. Realizzata come una sorta di giallo o, questa sottile metafora sulla soggettività delle percezioni procurò per la prima volta ad Antonioni o un vastissimo successo di pubblico.

Zabriskie Point
Michelangelo Antonioni – Italia/Francia 19701h 50’

Los Angeles. Il giovane Mark partecipa a una riunione di studenti universitari e, sebbene insoddisfatto per l’aridità dei loro discorsi, ne condivide i sentimenti di ribellione. Acquista delle armi. Si trova coinvolto in una sparatoria all’università. Sospettato dell’uccisione di un poliziotto, fugge fuori città. Giunto nei pressi di un aeroporto, ruba un aereo e vola verso il deserto. Contemporaneamente, una ragazza, Daria raggiunge il deserto su una vecchia automobile. I due si incontrano e arrivano insieme a Zabriskie Point, dove fanno l’amore: qui Daria ha una visione della Valle della Morte piena di coppie e di gruppi che si abbracciano. Poi Mark prende di mira un poliziotto che sopraggiunge, ma Daria gli impedisce di sparare. Ridipinto l’aereo come una sorta di uccello preistorico, Mark ritorna a Los Angeles, dove all’atterraggio viene ucciso dalla polizia. Daria apprende la notizia mentre raggiunge, a Phoenix, la villa di Ailen, un affarista che intende lottizzare il deserto per costruirvi case per le vacanze. Dopo una nuova visione - quella della villa che esplode — Daria lascia Phoenix, sola.
Accostandosi all’America della contestazione con occhi europei, Antonioni ne ha tratto un film che - sebbene condivida alcuni temi tipici del nuovo cinema americano (come la fuga, la ribellione individuale, la corsa del protagonista verso la morte) - conserva un peculiare sguardo ‘straniero’ e un tono del tutto personale: quello di una metafora apocalittica. Sui dati esistenziali e politici prevalgono infatti quelli simbolici: il volo come desiderio di ‘getting out’, di distacco dal quotidiano; il deserto come luogo di incontro tra Amore e Morte; l’esplosione - immaginaria, rallentata - come rifiuto della società dei consumi e dei suoi feticci: vestiti, cibi, elettrodomestici, suppellettili, libri e giornali che si disintegrano e ricadono come una assurda pioggia di lapilli. È la scena più significativa del film, sia da un punto di vista espressivo, come profezia di una moderna apocalisse, sia da un punto di vista tecnico: fu girata con particolari accorgimenti e con l’ausilio di 17 m.d.p. sincronizzate su vari gradi di ralenti. Ma la più suggestiva è la scena d’amore nell’ombra di un avvallamento del deserto di Mojave, con l’accompagnamento della chitarra di Jerry Garcia, che improvvisò in sincrono sul film: è una sequenza di sottile gioco cromatico (i bianchi del deserto, gli azzurrini dell’ombra, il blu intenso del cielo) e ritmico. Astrazione e simbolismo si succedono e si accavallano sino all’esplosione mentale e alla fuga di Daria nell’ombra della sera, in campo lungo.

Alessandro Bencivenni - Il Dizionario universale del cinema

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