Costa-Gavras
ce l'aveva mostrato nell'ultimo film in cui aveva dato libero sfogo al suo
genio rabbioso: il capitalismo è il Male disumanizzante, una sorta di
virus sociale che muta il Dna delle classi sociali per poi demolire codici
e valori dei singoli individui. Cos'era
Cacciatore di teste, infatti, se non
una vendetta geniale di una vittima del sistema contro altre vittime? E
persino Lars Von Trier aveva intuito nel suo cinema sentenzioso quanto il
modello economico stratificato e speculativo moderno abbia devastato ogni
schema, cosicché è rimasto l'odio ma è irrintracciabile il conflitto tra
sfruttatori e sfruttati. Cos'era, infatti,
Il grande capo,
se non una grottesca dimostrazione che la prevaricazione ha sempre un
colpevole, che ora però non ci mette la faccia ma agisce solo per delega
dei suoi kapò? E potremmo andare avanti ancora molto, citando anche film
italiani diversi e a loro modo complementari come
Cover boy o
Tutta la vita davanti.
Cinema precario e ribelle che fotografa con dolce ferocia le difficoltà di
un mondo che non ha più anticorpi contro i poteri forti, e che insegna la
lotta orizzontale (contro i propri simili) e mai verticale (contro i
padroni). In verità, almeno in Europa, c'è chi tenta di non rimanere
soggiogato da queste sabbie mobili, e tra banlieues e intermittenti, la
Francia continua a combattere frontalmente la crisi mondiale, morale e
materiale. Ed era inevitabile che da qui arrivasse un film grottesco e
incendiario come
Louise-Michel, che fin dal titolo dichiara la sua rabbia,
la sua ansia di lotta, giustizia e libertà. I due protagonisti, uniti,
formano il nome di un'anarchica femminista che ha fatto la storia, una che
prima e più di altri aveva saputo intuire lo stretto legame che passava
tra maschilismo, repressione sociale e di genere e capitalismo liberista.
E così per i due attori-registi televisivi Benoit Delépine e Gustave de
Kervern
Louise-Michel
è diventato un simbolo, una parola d'ordine, da
scomporre, letteralmente, e ricomporre nell'età moderna. Louise (Yolanda
Moreau) è un'operaia brutta, sporca e anche un po' cattivella. Difficile
darle torto, la mole e la qualità del suo lavoro sono inversamente
proporzionali alla sua paga infame. Michel (Bouli Lanners, già regista e
protagonista del bel
Eldorado Road, altro film sociale e
surreale) è una sorta di
grande Lebowski europeo, precario che
vive di espedienti improbabili. Li lega un contratto: lei, a nome di tutte
le sue colleghe operaie, l'ha assoldato come sicario per uccidere il
padrone che le ha licenziate il giorno dopo aver regalato loro un
grembiule nuovo, rassicurandole sul futuro. L'ha fatto all'americana:
delocalizzazione da un giorno all'altro, fabbrica vuota, il (loro) mondo
che crolla. Da qui comincia uno spassoso e allo stesso tempo atroce
viaggio in un orrore assurdo: il politicamente scorretto, visivo e
narrativo, diventa il veicolo per raccontare in anticipo quello che ora si
sta realizzando con i sequestri dei manager, proprio in Francia. L'arte,
che sa essere estrema ed estremista, ha anticipato il male estremo e anche
il suo estremo rimedio. Il film che ha fatto impazzire i festival di San
Sebastian e Sundance nel 2008, anticipava la bolla economica e la sua
esplosione, i suoi meccanismi e i suoi corto circuiti. (illuminante e
avvilente, in questo senso, la riunione delle donne liquidate con 20mila
miseri euro, alla ricerca di un investimento che possa salvarle)
Delépine e Kervern, in un film in crescendo, ci mettono di fronte ai
nostri desideri reconditi e inconfessabili: insaziabili cinefili citano
Bunuel, Gilliam, persino i Monty Python, rimasticando lo stile dei Coen.
Non cercano reti di protezione, lo si capisce quando si scopre che le armi
scelte per ammazzare il grande capo sono dei malati terminali, persino
felici di essere utili allo scopo, kamikaze precari, vittime assolute che
cercano di diventare carnefici, o meglio giustizieri. La sospensione del
giudizio morale, dai dialoghi all'immagine, è immediata, e questo dice
molto del coraggio dei registi ma anche dell'esasperazione degli
spettatori.
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