Morire
a vent'anni, o poco più, per aver usato la testa. Tale fu il destino di
Giancarlo Siani, il giornalista precario del Mattino ("abusivo", diceva
lui) ucciso sotto casa il 23 settembre 1985. Morire a 26 anni per aver
scritto nomi, collegato fatti, intuito retroscena. Senza mai coprirsi,
anzi continuando a fare la vita che deve fare un ragazzo tra amici,
fidanzata, uscite serali. Sempre a bordo di un'auto, così fragile e
identificabile da essere una metafora perfetta. Chi ricorda Giancarlo Siani, il sorriso dietro gli occhiali, lo sgomento per quel primo delitto
feroce di camorra, ricorda infatti anche la sua Citroën Mehari. La Mehari
oggi non la comprerebbe nessuno. Era una specie di micro-jeep, lenta,
minuscola, tutta di plastica, con teli come finestrini. L'opposto di un
Suv o di un'auto blindata. L'auto di chi non aveva nulla da temere e
voleva godersi la vita. Ed era anche l'auto di Siani (quella del film, per
inciso, è proprio la sua originale). Non è solo un dettaglio. È una delle
chiavi, ci sembra, del lavoro di Marco Risi e dei co-sceneggiatori Jim
Carrington e Andrea Purgatori. Sarebbe stato facile aggiungere un eroe
all'infinito martirologio delle nostre cronache. Ma Siani (un limpido
Libero De Rienzo) non voleva, non credeva di essere un eroe. E
Fortapàsc
rievoca la sua parabola intrecciando due registri. Da un lato c'è un film
d'azione iperrealista con la camorra dilaniata da guerre intestine che
complotta, corrompe, massacra in pieno giorno, con scene orride o
grottesche (il traditore infilzato col pescespada, il fuggiasco che sta
affogando ma viene ripescato e "sparato", il sindaco Ennio Fantastichini
che riceve mazzette nascoste nelle bistecche).
Dall'altro, ed è il lato più nuovo e rischioso, la vita quotidiana di
Siani: la mamma premurosa e invisibile; il capetto che lo scoraggia
(Ernesto Mahieux) ma poi gli spiega che ci sono giornalisti-giornalisti e
giornalisti-impiegati (scena peraltro assai didascalica); la fidanzata
forse incinta (Valentina Lodovini), cosa che preoccupa Giancarlo assai più
che finire nel mirino della camorra; l'amico fotografo (Michele Riondino)
che gli sta sempre a fianco ma annega la paura nell'eroina. Scoperchiando
per un attimo l'abisso che Siani non vede, non vuole vedere.
È una delle scene più belle di questo film generoso e diseguale (insieme a
quella, di grande effetto, che giustappone la riunione camorrista a un
tempestoso consiglio comunale, omaggio a Le mani sulla città di Rosi).
Perché fonde in un lampo quel grumo di gioia di vivere e di terrore che
segue Siani come un'ombra, alla sensazione lancinante di non poter mai
sapere tutto, né dell'amico che hai a fianco, né della fidanzata che forse
gioca coi tuoi sentimenti, né del magistrato che ti evita ma ha bisogno di
te, anzi ti fornisce delle piste, magari ti usa. Così non resta che andare
avanti, costi quel che costi, sapendo che non ci sarà mai abbastanza luce
(bella la doppia scena degli abbaglianti), ma che non si può fare
altrimenti. |