Fortapàsc
Marco Risi – Italia 2008 - 1h 48'

  Morire a vent'anni, o poco più, per aver usato la testa. Tale fu il destino di Giancarlo Siani, il giornalista precario del Mattino ("abusivo", diceva lui) ucciso sotto casa il 23 settembre 1985. Morire a 26 anni per aver scritto nomi, collegato fatti, intuito retroscena. Senza mai coprirsi, anzi continuando a fare la vita che deve fare un ragazzo tra amici, fidanzata, uscite serali. Sempre a bordo di un'auto, così fragile e identificabile da essere una metafora perfetta. Chi ricorda Giancarlo Siani, il sorriso dietro gli occhiali, lo sgomento per quel primo delitto feroce di camorra, ricorda infatti anche la sua Citroën Mehari. La Mehari oggi non la comprerebbe nessuno. Era una specie di micro-jeep, lenta, minuscola, tutta di plastica, con teli come finestrini. L'opposto di un Suv o di un'auto blindata. L'auto di chi non aveva nulla da temere e voleva godersi la vita. Ed era anche l'auto di Siani (quella del film, per inciso, è proprio la sua originale). Non è solo un dettaglio. È una delle chiavi, ci sembra, del lavoro di Marco Risi e dei co-sceneggiatori Jim Carrington e Andrea Purgatori. Sarebbe stato facile aggiungere un eroe all'infinito martirologio delle nostre cronache. Ma Siani (un limpido Libero De Rienzo) non voleva, non credeva di essere un eroe. E Fortapàsc rievoca la sua parabola intrecciando due registri. Da un lato c'è un film d'azione iperrealista con la camorra dilaniata da guerre intestine che complotta, corrompe, massacra in pieno giorno, con scene orride o grottesche (il traditore infilzato col pescespada, il fuggiasco che sta affogando ma viene ripescato e "sparato", il sindaco Ennio Fantastichini che riceve mazzette nascoste nelle bistecche).
Dall'altro, ed è il lato più nuovo e rischioso, la vita quotidiana di Siani: la mamma premurosa e invisibile; il capetto che lo scoraggia (Ernesto Mahieux) ma poi gli spiega che ci sono giornalisti-giornalisti e giornalisti-impiegati (scena peraltro assai didascalica); la fidanzata forse incinta (Valentina Lodovini), cosa che preoccupa Giancarlo assai più che finire nel mirino della camorra; l'amico fotografo (Michele Riondino) che gli sta sempre a fianco ma annega la paura nell'eroina. Scoperchiando per un attimo l'abisso che Siani non vede, non vuole vedere.
È una delle scene più belle di questo film generoso e diseguale (insieme a quella, di grande effetto, che giustappone la riunione camorrista a un tempestoso consiglio comunale, omaggio a Le mani sulla città di Rosi). Perché fonde in un lampo quel grumo di gioia di vivere e di terrore che segue Siani come un'ombra, alla sensazione lancinante di non poter mai sapere tutto, né dell'amico che hai a fianco, né della fidanzata che forse gioca coi tuoi sentimenti, né del magistrato che ti evita ma ha bisogno di te, anzi ti fornisce delle piste, magari ti usa. Così non resta che andare avanti, costi quel che costi, sapendo che non ci sarà mai abbastanza luce (bella la doppia scena degli abbaglianti), ma che non si può fare altrimenti.

Fabio Ferzetti - Il Messaggero

    L'uscita del film cade all' indomani di una serata tv memorabile: quella di Saviano ospite di Fazio. Il protagonista del film di Marco Risi è stato un predecessore dell' autore di Gomorra. Giancarlo Siani aveva la vocazione del cronista e, da precario del Mattino di Napoli, si appassionò alle vicende di Torre Annunziata e raccontò ciò che vedeva, compresi traffici e complicità illeciti. Gli costò la vita, a 26 anni. A determinare il tono particolare di questo film è la scelta del suo interprete principale. Libero De Rienzo: semplice e perbene, solare, antieroico. I tempi sono peggiorati, Saviano è costretto a una vita cupa e nascosta. Ma il messaggio è lo stesso: la mafia (e sue varianti) è viltà e disonore. E stare dalla parte giusta significa spezzare l'inganno secondo il quale le mafie sarebbero protettive dei bisognosi.

Paolo D'Agostini - La Repubblica

promo

Cronaca di una morte annunciata. La storia è quella, vera, di Giancarlo Siani, giovane cronista de “Il Mattino” ucciso dalla camorra a ventisei anni. Risi coglie l’importanza della solitudine in cui viene abbandonato Siani e la spirale dentro cui viene fatto scivolare lentamente fino al massacro del settembre ’85. Con la linearità di un cinema che non ha tesi da dimostrare ma una bruciante urgenza di raccontare, il racconto di Risi mescola il pubblico e il privato, con una formula drammatica non nuova, ma emozionante. La denuncia contro la complice accidia che genera mostri è ben calibrata e De Rienzo è tenero e bravo nel tratteggiare il ritratto del giornalista che voleva fare il suo lavoro e diventò un eroe.

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