Il rischio, parlando
de L’uomo senza passato,
è quello di tradire l’anima stessa del film, lasciandosi imbrigliare nei lacci
della retorica. Perché il film di Kaurismaki affronta temi come l’affetto e
l’amore, i rapporti sociali e la solidarietà, le dinamiche del lavoro e
dell’economia, stimolando ad assunti di commossa umanità, ma mettendo il tutto
sullo schermo con un rigore espressivo e una laconicità narrativa esemplari.
Un uomo arriva in treno a Hensinki, non sa dove andare e si addormenta su una
panchina. Dei teppisti lo picchiano selvaggiamente e lo riducono in fin di vita.
All’ospedale lo dichiarano morto. Invece, all’improvviso, si rimette in piedi e,
quale Frankenstein di questo trapasso di secolo, si avvia a scoprire il mondo.
Un Frankenstein non fatto di pezzi umani, ma “fatto a pezzi” da altri uomini che
riuscirà comunque a trovare un senso per ricomporre la propria vita. Non ha più
nome né ricordi, ma quelli che incontra sulla sua strada sanno accettarlo: il
suo vuoto di memoria non è più grave del vuoto di valori del (non)vivere civile
e cosa serve “un nome” se in banca svizzera puoi glissare la burocrazia (e il
fisco) con un conto intestato solo ad “un numero”?
L’uomo senza passato di Kaurismaki vive in una baraccopoli, ma la sua fiducia
nel futuro è invitta; anche perché incontra altri sventurati pronti a dargli una
mano, può contare sull’aiuto delle pie donne dell’Esercito della Salvezza, tra
queste troverà la sua anima gemella…
A leggerla sembra solo una favoletta edificante, ma è il look del cinema di
Kaurismaki a dare il tono alla storia: dialoghi scarni e una recitazione spesso
estraniata, scenografie ridotte all’osso e un’atmosfera esistenziale che sa
sublimare il tragico nel poetico, lo squallore nella dignità, l’assurdo in
monito. “Sì, certo che posso parlare. Solo che prima non mi veniva in mente
niente da dire” confida il protagonista alla sua Irma; la desolazione dei
container “prende colore” con una mano di pittura alle pareti, la luce arriva
direttamente dai pali della corrente elettrica e anche un vecchio juke-box
abbandonato ritrova voce. Un invito “fuori a cena” corrisponde a presentarsi
alla mensa dei poveri, il batti e ribatti tra un poliziotto catatonico e un
avvocato da fumetto si inebria in un susseguirsi di cavilli legali… L’adattarsi
al destino non è rassegnazione, il fare film secondo la propria sensibilità e
non secondo i cliché commerciali non vuol dire non poter conquistare il
pubblico. Dopo una carriera sempre all’insegna della stravaganza e della
coerenza (dal bizzarro
Leningrad Cowboys Go to America
al bianco e nero “muto” di
Juha),
il Gran Premio della giuria a Cannes ha riportato Kaurismaki all’attenzione dei
media e un sorprendente riscontro al botteghino ha premiato L’uomo senza
passato.
Il Lux, che a Padova lo sta programmando, presenterà a febbraio
una
retrospettiva-riassunto
sul regista finlandese. Una buona occasione per ripercorrere un’originalissima
proposta autoriale, per scoprire la minimalista rivisitazione rock
che va dalle canzoni dei Leningrad alle variazioni pop dell’esercito
della salvezza: con un paragone musicale quello di Kaurismaki è un
cinema “in levare”. Che “lascia” però molto di più di tante altre
pellicole d’oggi, sature di effettismi e vacuità.
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