GIOVENTU' BRUCIATE
Il tormento generazionale da sempre scuote con veemenza l'albero delle
illusioni cinematografiche, da
Gioventù
bruciata a Rusty il selvaggio, dal divismo introverso
dei giovani Dean, Brando, Newman fino al disagio sottile della X-generation
(Desideri smarriti,
Giovani,
carini e disoccupati, il recente
Buon
compleanno Mr. Grape). Ma nello sguardo del cinema di fronte
alla "sofferenza" giovanile c'è anche un percorso di istituzioni
in crisi (da Il seme della violenza
a L'attimo fuggente), di rieducazioni
sociali estreme (Il ragazzo selvaggio,
Il sapore dell'acqua).
La questione, sia nel problema del gap generazionale, sia in quello
dello sbandamento esistenziale quotidiano, si riconduce spesso ad un
discorso di assenza di valori, di istanze culturali sopite, di massificazione
alienante in contesti "espropriati". E, in risposta, si invocano
la sintonia con l'ambiente, le sicurezze della famiglia e dell'amicizia,
l'appagamento culturale di una fantasia spensierata e creativa. Ed ecco,
a confrontare gli estremi di questa idealizzazione risolutoria, due
film antitetici nella loro struttura stilistica e tematica quali l'americano
Nell
e il neozelandese
Creature del cielo
(Leone
d'argento al 51° Festival di Venezia).
Nell (regia di Michael
Apted) gioca le sue carte proprio sulla saturazione di valori fondamentali
(carità umana, distacco dai miti dell'efficientismo e del successo,
rispetto per l'individuo e per l'ambiente) che abbracciano lo spettatore
con la stessa maestosità della cornice paesaggistica in cui la vicenda
si sviluppa. Lo scenario è quello delle montagne del North Carolina,
la storia quella di Nell, "ragazza selvaggia" che ha "bruciato"
la propria giovinezza in un isolamento coatto, accanto ad una madre anziana
e quasi muta, e che viene "scoperta" dalla civiltà come
caso clinico e umano eccezionale: si esprime con un linguaggio frammentato
ed una gestualità incomprensibili, ha paura degli uomini e della
luce del giorno, di notte danza alla luce della luna e fa il bagno nuda
nel lago, comunica fragilità, tenerezza, bisogno di aiuto... Il
coinvolgimento emotivo per i suoi "dottori", Jerome e Paula,
è superiore a qualsiasi disputa scientifica (i due si immedesimeranno
a tal punto come coppia di riferimento per la giovane figlia-paziente,
da riscoprirsi non più antagonisti ma innamorati) ed il lieto fine
collettivo è di tale serenità umana ed ecologica da inibire
ogni critica contenutistica.
Eppure, di fronte a tanta declamazione "positiva" e al successo
spropositato di pubblico, viene quasi il sospetto che il disorientamento
delle nuove generazioni (USA e non) possa derivare anche dall'imbarazzante
confronto con l'inanimata retorica di questi "temini" dei buoni
sentimenti che i massmedia propinano con furbizia e sufficienza, ma che
restano lontani dalla concreta esperienza del vivere contemporaneo. Certo
la solidarietà ed il rispetto dei bisogni profondi della persona
sono valori esistenziali inconfutabili e l'interpretazione di Jodie Foster
è di grande effetto (non per niente ha prodotto il film puntando
sul terzo oscar personale), ma tutto in
Nell sa di lezioso e scontato:
le emozioni sono prevedibili, le asprezze edulcorate, le enunciazioni "morali"
di una pretenziosità incongruente.
Se è tutta qui la forza trainante dell'assunto, se deve essere
questa la via per il risanamento dell'immagine come strumento popolare
educativo, si può capire perché, per contrasto, i ragazzi
di oggi si lascino coinvolgere emotivamente dal fascino perverso di
Natural Born Killers.
E, in analogia, è
dalla disaffezione verso una cultura di valori dogmatici non rivitalizzati
che scaturisce il dramma di Janet e Pauline, le protagoniste di
Creature
del cielo
(Heavenly Creatures). Siamo negli anni '50, in Nuova
Zelanda e le due ragazze, compagne di liceo, conoscono un'amicizia intensa
e totalizzante. Provengono da ambienti sociali contrastanti, hanno esperienze
e caratteri diversi, ma le accomuna il rifiuto di una standardizzazione
esistenziale perbenista ed un'intesa fraterna,
velata
di omosessualità ma segnata soprattutto da una fantasia ridondante.
Il loro sogno è Hollywood, il loro credo è la tensione creativa
di scrivere un grande romanzo. Nel loro fantasticare la finzione del racconto
si confonde con la realtà del vivere, arrivando ad isolarsi dalla
concretezza del quotidiano ed a concepire un omicidio con la leggerezza
con cui progettano una scampagnata tra i boschi.
A sorreggere un percorso narrativo così estremizzato ed ambiguo
c'è la straordinaria mano del regista Peter Jackson
, puntiglioso
(con la co-sceneggiatrice Frances Walsh) nel sublimare nello script un
fatto di cronaca reale (Christchurch 1954, "il caso delle lesbiche-assassine"),
visionario nel dare concretezza all'irruenza fantasiosa di Juliet e Pauline,
all'irrefrenabile giocosità della loro adolescenza, al mondo fiabesco
della loro ingenua follia. Tutto è sopra le righe in
Heavenly
Creatures: la disincantata morbosità delle psicologie, il kitsch
delle figure di creta della mitica Borovnia, i frenetici movimenti della
macchina da presa, la sgargiante resa cromatica. E tutto è emozione,
stupore continuo per l'invenzione cinematografica (possiamo ben parlare
ormai di scuola neozelandese) e per la denuncia drammatica, ma scevra del
moralismo e della retorica hollywoodiani. Quelle di Juliet e Pauline, così
"normali" nella loro pulsione fantastica e nella loro contestazione
omicida, sono due giovinezze "bruciate" che non creano miti,
bensì evidenziano il rischio dell'estraneazione, l'ambiguità
degli eccessi anche nell'amore supremo per la sublime arte della letteratura.
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