Un
anno di attività, quattro numeri… La periodicità di
MC magazine
è precaria quanto l’esistenza stessa della rivista, della sua
redazione… Non certo del suo status no-profit, del suo progetto
culturale! La nostra presenza sul web
non vuole essere “presenzialismo” di rete, ma
occasione di testimonianza essen-ziale, di “pagine di cultura e
informazione cinematografica” da affiancare, nell’attualità del
continente, alla linea editoriale di
The Movie Connection,
dalla cui costola esce questo magazine.
Così la panoramica relativa al
Festival di Venezia è ridotta quest’anno
al minimo, secondo criteri di personalistico interesse dei nostri
inviati, privilegiando una visione d’insieme che si barcameni tra
l’imbarazzante evolversi storico politico dell’istituzione Biennale e
i nuovi segnali “di tendenza” di quell’ oggetto del desiderio
(ludico e culturale) chiamato cinema.
La precarietà di cui sopra emargina purtroppo alcune
riflessioni che sarebbero “doverose” per coprire l’ampio
spettro d’intervento a cui la rivista ambisce (cultura
e altro...). Tra l’insania bellica della politica
estera mondiale (a un anno dall’11 settembre il nostro
intervento
sul numero 2 è ancora calzante
purtroppo!) e la tracotanza personalistica delle nostre
dinamiche governative (l’unico sospetto legittimo
è che l’illegittimità diventi insospettabile!), la
carne al fuoco sarebbe davvero molta. Speriamo nel
prossimo numero…
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Segnali
probanti del nuovo corso De Hadeln? Inutile tentare
un'anamnesi polemica di questa
Mostra di Venezia 2002
inopinatamente sottratta alla gestione Barbera, ma,
ironicamente, propria la sezione del secondo concorso
(Controcorrente)
propugnata dal vecchio direttore, è quella che più
ha saputo darsi una vera identità da Festival. È vero
che i selezionatori non possono che pescare in ciò
che offre il mercato, ma la piattezza artistica di
questa vetrina di Venezia 59 è stata deprimente. Una
manciata di titoli di buon livello (Frida,
The
Magdalene Sisters,
Road To Perdition,
Far From Heaven,
L'homme du train,
Dolls,
Dirty Pretty
Things) e la fresca
sorpresa di Nha fala
a dare corpo e dignità, ma poi pellicole improponibili
come Bears' Kiss
e Julie Walking Home
hanno abbassato inesorabilmente il livello medio,
già mediocre con opere stagnanti e pretenziose: da
Un monde presque
paisible (Michel
Deville) a
Un
viaggio chiamato amore
(Michele Placido), da
The
Tracker
(Rolf De Heer) a La
maison de fous (Koncialosky).
L'innesto fecondo di
Controcorrente (Lilja
4-Ever,
Poniente,
The Missing Gun,
Un homme sans l'occidente...)
e alcuni colpi ben azzeccati del
Fuori concorso (la Bigelow,
Eastwood e il lancinante 11'09"
01 - September
11) riescono a salvare
la faccia di De Hadeln e soci, ma se il materiale
per una Mostra con la M maiscola non c'è perché non
ridurre le giornate in calendario (lo si dice da anni),
perché non innestare nel corpo principale i pezzi
forti dei Nuovi territori
(ad esempio
Rosy-fingered
Dawn,
il documentario su Terry Malik)? Il ritmo di visione
per gli addetti ai lavori è stressante (un pasto caldo
costa la perdita di almeno un film), le opere prime
della Settimana della
Critica restano ghettizzate,
quasi impossibile riuscire a infilare nel percorso
concorso/controcorrente le proiezioni collaterali
(Risi e Antonioni...)!
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11' 09" 01
- September
11
Messico/Iran/Burkina
Faso/Israele/Bosnia Erzégovina/Egitto/Giappone/Francia/UK/USA
2002 - 2h 15'
http://www.bimfilm.com/11settembre2001/index.htm
Uno schermo nero, una colonna sonora in cui si accavallano
voci, rumori, prima confusi, poi man mano sempre più definiti,
sinistri scricchiolii, appelli disperati dai cellulari,
richieste di soccorso in un crescendo di orrore: undici minuti e
nove secondi che assorbono lo spettatore all’interno dello
schermo NERO. Le immagini in diretta della tragedia delle Twin Towers fanno parte della nostra memoria, possiamo vederle anche
solo attraverso la percezione auditiva sullo schermo oscurato
dove soltanto per brevissimi flash compare quella che è
diventata un’icona dell’11 Settembre: l’immagine del corpo
piccolissimo che cade e che qualcuno ha paragonato al tuffatore
della tomba di Paestum ritratto nell’atto di compiere il salto
fatale, quello dalla vita alla morte.
“L’11 settembre la realtà ha annientato la fiction. Ricordo che
le mani mi tremavano senza controllo mentre osservavo 3000
persone morire in diretta TV. Ormai abbiamo visto tutto”
dichiara il giovane regista messicano Alejandro Gonzaléz
Inarritu
(Amores
Perros) autore di uno dei più suggestivi
episodi del film collettivo sull’11 settembre.
L’unico tra gli undici registi, che hanno firmato il film, a
fare un riferimento diretto alle Twin towers, non a caso
operando questa scelta linguistica.
Ciò che caratterizza e accomuna tutti gli altri episodi e che ha
suscitato sterili polemiche, è infatti una sorta di pudore a
mostrare, accompagnato dal bisogno di parlare d’altro. Il filtro
che viene interposto tra la realtà e la sua rappresentazione in
alcuni casi privilegia la distanza spaziale puntando sulla
risonanza che l’evento ha avuto nei paesi d’origine dei singoli
registi (i bambini afghani profughi in Iran di Samira Makhmalbaf
/ i simpaticissimi ragazzini del Burkina Faso del bel episodio
di Idrissa Ouedraogo, che credono di avere riconosciuto in un
personaggio barbuto Bin Laden e sperano di ottenere i soldi
della taglia per far curare la madre di uno di loro / la
telecronista, un po’ troppo di maniera, dell’episodio di Amos Gitai, che non riesce ad andare in onda con le immagini in
diretta di un attentato a Tel Aviv perché proprio in quel
momento arrivano le notizie da New York). In altri casi viene
privilegiata la distanza temporale: l’11settembre della strage
di Srebenica rievocata dal bosniaco Danis Tanovic, l’11
settembre del 1973 in Cile quando un colpo di stato pose fine al
sogno di democrazia di Allende, nell’episodio di Ken Loach, il
più applaudito dal pubblico in sala, il fantasma di un marine
ucciso a Beirut nell’’80 che recita un dialogo con il regista
egiziano Youssef Chahine, il reduce di Hiroshima diventato uomo serpente
nello sconcertante episodio di Shoei Imamura.
C’è infine chi ha scelto di privilegiare la dimensione umana
della tragedia come la regista indiana Mira Nair
che racconta
una storia vera di una madre che non riesce a ritrovare il
figlio dopo quel giorno e Claude Lelouch che invece non va oltre la
banalità di una storia d’amore con tanto di happy end.
Un film collettivo: undici registi invitati a raccontare, in
undici minuti nove secondi e una immagine, il loro punto di vista
sui tragici eventi con assoluta libertà di espressione:
l’assunto che li accomuna è perfettamente sintetizzato
dall’episodio struggente e spietato firmato dall’unico regista
americano Sean Penn: l’importante non è raccontare i fatti, ma
ciò che essi ci hanno fatto vedere. Non vede la luce, che le
Torri gemelle non lasciano entrare nel suo povero scantinato
dove i fiori appassiscono, il vecchio vedovo (E. Borgnine) che
vive nell’illusione che la moglie morta sia ancora con lui, ma
quando improvvisamente la luce riappare i fiori rifioriscono e
la realtà è tutta lì davanti ai suoi occhi, che prima ridono di
gioia e poi piangono disperati. E’ la luce che improvvisamente
entra nella stanza che ci deve far riflettere sulla realtà e sul
nostro modo di rapportarci con noi stessi e con il mondo intero,
perché la tragedia di New York è la tragedia non soltanto di
coloro che sono morti nelle torri gemelle ma di tutti quelli che
nel mondo in qualsiasi epoca sono stati e sono vittime della
violenza, della povertà e della sopraffazione.
Cristina Menegolli
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