Trovarsi
d’accordo, a livello critico, con il responso degli
oscar è un evento nell’evento.
Le premiazioni degli Academy Award seguono una logica commerciale
che spesso infastidisce (come trascurare, nel ‘98,
La sottile linea rossa?
E, nel 2001, un film come
Moulin Rouge?). Quest’anno invece sono più che meritati
il riconoscimento a
The Aviator (ben 5 statuette “tecniche”, solo Di
Caprio escluso in virtù di un’altra straordinaria performance, quella
di Jamie Foxx in Ray)
e il massimo tributo a
Million Dollar Baby
di Clint Eastwood
(miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista,
miglior attore non protagonista).
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Eastwood aveva già conquistato un'altra quaterna memorabile nel ‘92 con
Gli
spietati
(film, regia, attore non protagonista e montaggio), l’hanno scorso aveva
visto insigniti gli attori del suo
Mystic River (Sean Penn e Tim Robbins), ma se
Gli spietati
era un western autunnale avaro di comunicatività e dialoghi e
Mystic River
viveva di una dimensione corale tragica sotto il
peso di un enigma incombente,
Million Dollar Baby, che Eastwood, con lo
sceneggiatore Paul Haggis, ha tratto dalla raccolta
"Lo sfidante" di F. X.
Toole, è una composizione da camera per pugni, amarezze e (dis)illusioni.
L’ambiente è quello di una palestra per pugili, ma siamo ben lontani dal
rutilante mondo della grande boxe (Lassù qualcuno mi ama,
Rocky,
Toro
scatenato), anzi data la situazione di partenza, si potrebbe dubitare di
vedere la protagonista arrivare alfine sul ring. Sì perché il boxer in
questione è Maggie, una donna (Hilary Swank, straordinaria), una ragazza
matura, volitiva e di grande talento, che si affida ad un manager tanto
capace quanto ritroso (non sopporta l’idea di un pugile femmina) e
burbero (“sei troppo vecchia, non ce la farai mai. E non hai la
stoffa”). Frankie Dunne (Eastwood, splendido come attore quanto come
regista) è un
allenatore eccezionale,
ma “messo all’angolo” dalla infelicità del
privato (una figlia lontana che non risponde mai alle sue lettere) e dai
sensi di colpa accumulati in una carriera avara di soddisfazioni. I suoi
pugili lo stimano, ma si rendono conto che il suo esitare potrebbe non
portarli mai all’incontro decisivo; Scrap-lron (Ferrovecchio) Dupris, il
suo aiutante, vecchio, nero, orbo di un occhio (Morgan Freeman, altro
oscar meritatissimo), sa come prenderlo ed è grazie a lui che alla fine
Maggie riesce a farsi accettare. Per lei l’educazione pugilistica avrà i
colori plumbei della fatiscente palestra Hit Pit, ma la vivida
consapevolezza di un futuro che solo il rispetto per se stessi può
forgiare al meglio. Maggie colpisce il
sacco senza posa, ripete i passi
di boxe anche mentre serve ai tavoli, impara ad apprezzare la ruvida
affettuosità di Frankie. Lui, che ogni giorno va a messa a confrontarsi
col suo ipercritico spirito laico, che la segue con fare paterno, che la
prepara in palestra con meticolosa professionalità, cerca di trovare
insieme a Maggie uno sbocco per un’esistenza ovattata per troppo tempo
nel rinchiudersi in ufficio a studiare gaelico e leggere Yates.
Non si può andare oltre nel racconto per non minare l’emozione intensa
che
Million Dollar Baby sa far crescere inquadratura dopo inquadratura:
tutte precise, essenziali, costruite su gesti pacati, su sguardi
profondi che toccano l’anima; tutte pregne di uno stile classico e di
una personalità d’autore ormai compiuta. Ma ci sono considerazioni che
ancora vanno evidenziate, perché, al di là di discussioni di maniera, il
film di Eastwood è un pamphlet etico sullo squallore della solitudine e
sul bisogno di potersi giocare fino in fondo le proprie chance, alla
faccia di valori familiari negati e degli sberleffi del destino. Una
vera opera cinematografica che resta impressa come lancinante
confessione riguardo a quale sia “il giusto” per noi e per gli altri,
per la morale civile o per la cruda esperienza personale: se ciò che ci
viene richiesto da chi amiamo sia un bene assoluto o relativo, se quello
che dobbiamo affrontare nell’emergenza possa rivelarsi una
responsabilità troppo forte, una condanna insanabile. Quel “Mo guishie”,
scritto sull’accappatoio verde Irlanda, resta negli occhi e nel cuore
come un frase di spavalda tenerezza, Frankie-Clint che svanisce in fondo
a un corridoio d’ospedale è un’immagine che vale più di tanto cinema
adrenalinico di approssimativa complessità. “La boxe è un atto
innaturale” aveva sentenziato in apertura; lo scatto felino di Maggie,
il suo sorriso aperto e bisognoso d’approvazione allargano la sua e la
nostra prospettiva verso una riflessione sociale in cui è il desiderio
di realizzarsi e di essere felici che sembra essere “innaturale”.
“Parlare di boxe è parlare di rispetto”, commenta Scrap, che si erge a
indispensabile voce narrante. Parlare di Eastwood, come di John Ford una
volta, è parlare di cinema, di uomini e sentimenti veri.
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