Million Dollar Baby
Clint Eastwood - USA 2004 - 2h 7'


miglior FILM
miglior regista (CLINT EASTWOOD)
miglior attrice protagonista (HILARY SWANK)
miglior attore non protagonista (MORGAN FREEMAN)


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   Trovarsi d’accordo, a livello critico, con il responso degli oscar è un evento nell’evento. Le premiazioni degli Academy Award seguono una logica commerciale che spesso infastidisce (come trascurare, nel ‘98, La sottile linea rossa? E, nel 2001, un film come Moulin Rouge?). Quest’anno invece sono più che meritati il riconoscimento a The Aviator (ben 5 statuette “tecniche”, solo Di Caprio escluso in virtù di un’altra straordinaria performance, quella di Jamie Foxx in Ray) e il massimo tributo a Million Dollar Baby di Clint Eastwood film successivo in archivio (miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista, miglior attore non protagonista).
>> Eastwood aveva già conquistato un'altra quaterna memorabile nel ‘92 con Gli spietati (film, regia, attore non protagonista e montaggio), l’hanno scorso aveva visto insigniti gli attori del suo Mystic River (Sean Penn e Tim Robbins), ma se Gli spietati era un western autunnale avaro di comunicatività e dialoghi e Mystic River viveva di una dimensione corale tragica sotto il peso di un enigma incombente, Million Dollar Baby, che Eastwood, con lo sceneggiatore Paul Haggis, ha tratto dalla raccolta "Lo sfidante" di F. X. Toole, è una composizione da camera per pugni, amarezze e (dis)illusioni.
      L’ambiente è quello di una palestra per pugili, ma siamo ben lontani dal rutilante mondo della grande boxe (
Lassù qualcuno mi ama, Rocky, Toro scatenato), anzi data la situazione di partenza, si potrebbe dubitare di vedere la protagonista arrivare alfine sul ring. Sì perché il boxer in questione è Maggie, una donna (Hilary Swank, straordinaria), una ragazza matura, volitiva e di grande talento, che si affida ad un manager tanto capace quanto ritroso (non sopporta l’idea di un pugile femmina) e burbero (“sei troppo vecchia, non ce la farai mai. E non hai la stoffa”). Frankie Dunne (Eastwood, splendido come attore quanto come regista) è un allenatore eccezionale, ma “messo all’angolo” dalla infelicità del privato (una figlia lontana che non risponde mai alle sue lettere) e dai sensi di colpa accumulati in una carriera avara di soddisfazioni. I suoi pugili lo stimano, ma si rendono conto che il suo esitare potrebbe non portarli mai all’incontro decisivo; Scrap-lron (Ferrovecchio) Dupris, il suo aiutante, vecchio, nero, orbo di un occhio (Morgan Freeman, altro oscar meritatissimo), sa come prenderlo ed è grazie a lui che alla fine Maggie riesce a farsi accettare. Per lei l’educazione pugilistica avrà i colori plumbei della fatiscente palestra Hit Pit, ma la vivida consapevolezza di un futuro che solo il rispetto per se stessi può forgiare al meglio. Maggie colpisce il sacco senza posa, ripete i passi di boxe anche mentre serve ai tavoli, impara ad apprezzare la ruvida affettuosità di Frankie. Lui, che ogni giorno va a messa a confrontarsi col suo ipercritico spirito laico, che la segue con fare paterno, che la prepara in palestra con meticolosa professionalità, cerca di trovare insieme a Maggie uno sbocco per un’esistenza ovattata per troppo tempo nel rinchiudersi in ufficio a studiare gaelico e leggere Yates.
 Non si può andare oltre nel racconto per non minare l’emozione intensa che
Million Dollar Baby sa far crescere inquadratura dopo inquadratura: tutte precise, essenziali, costruite su gesti pacati, su sguardi profondi che toccano l’anima; tutte pregne di uno stile classico e di una personalità d’autore ormai compiuta. Ma ci sono considerazioni che ancora vanno evidenziate, perché, al di là di discussioni di maniera, il film di Eastwood è un pamphlet etico sullo squallore della solitudine e sul bisogno di potersi giocare fino in fondo le proprie chance, alla faccia di valori familiari negati e degli sberleffi del destino. Una vera opera cinematografica che resta impressa come lancinante confessione riguardo a quale sia “il giusto” per noi e per gli altri, per la morale civile o per la cruda esperienza personale: se ciò che ci viene richiesto da chi amiamo sia un bene assoluto o relativo, se quello che dobbiamo affrontare nell’emergenza possa rivelarsi una responsabilità troppo forte, una condanna insanabile. Quel “Mo guishie”, scritto sull’accappatoio verde Irlanda, resta negli occhi e nel cuore come un frase di spavalda tenerezza, Frankie-Clint che svanisce in fondo a un corridoio d’ospedale è un’immagine che vale più di tanto cinema adrenalinico di approssimativa complessità. “La boxe è un atto innaturale” aveva sentenziato in apertura; lo scatto felino di Maggie, il suo sorriso aperto e bisognoso d’approvazione allargano la sua e la nostra prospettiva verso una riflessione sociale in cui è il desiderio di realizzarsi e di essere felici che sembra essere “innaturale”. “Parlare di boxe è parlare di rispetto”, commenta Scrap, che si erge a indispensabile voce narrante. Parlare di Eastwood, come di John Ford una volta, è parlare di cinema, di uomini e sentimenti veri.

ezio leoni - La Difesa Del Popolo  6 marzo 2005

cinélite TORRESINO all'aperto: giugno-agosto 2005