da Il Messaggero (Fabio Ferzetti) |
Il
nodo affrontato da
Eastwood
in questo film appassionante e imperfetto
intreccia a forza di flashback la guerra, la propaganda e il ritorno dei
reduci da una delle battaglie più sanguinose del 1945. In 31 giorni
infatti morirono 21.000 giapponesi e 6.800 americani. L'obiettivo era
conquistare una sperduta isoletta vulcanica di grande importanza
strategica da cui poi partiranno i bombardieri diretti su Tokio. Ma questo
nel film non c'è. Ci sono, in primo piano, i sei marines immortalati nella
celeberrima foto in cui issano la bandiera sul monte Suribachi, e i loro
destini. Rievocati dal figlio di uno di loro, oggi, deciso a far luce su
quei giorni che il padre non ha mai voluto raccontare. |
da Il Film Tv (Emanuela Martini) |
Non sopportano di essere chiamati eroi. Loro hanno solo cercato di non farsi ammazzare. I veri eroi sono i ragazzi che sono morti su quell'isola. È con queste parole che i tre superstiti della fotografia che immortalò la conquista del monte Suribachi a Iwo Jima cercano di difendersi dalla folla che li circonda, di proteggersi la coscienza da una popolarità che forse non vogliono, di ricordare quello che non riescono a dimenticare: la guerra, le bombe, gli squarci nei corpi e nel terreno, le urla di dolore, il sangue, i compagni morti. Erano sei a sollevare quella bandiera (la seconda, quella dell'istantanea "storica" di Rosenthal); solo Doc, Ira e Rene sono tornati, rispediti in patria in fretta perché, mentre le sorti della guerra contro il Giappone sono tutt'altro che decise e le casse dello Stato sono ormai vuote, proprio quella fotografia ha risollevato lo spirito di una nazione che vuole solo veder tornare a casa i propri figli. E che per un atto di eroismo, per un barlume di vittoria, è disposta a pagare. Occorrono 14 miliardi di dollari per riarmare gli americani, e gli americani sono disposti a versarli, acquistando Buoni del Tesoro. Fu soprattutto per questo che, anche se la Storia smentiva la Leggenda (nel particolare tutto sommato minuscolo della doppia bandiera, e nella sostanza di una guerra ancora da vincere e delle sue perdite mostruose), da subito, dal 25 febbraio del 1945, si stampò la Leggenda. E si confezionarono gli eroi: Doc, Ira e Rene, eroi per caso, come tutti gli altri. Fordiano come non mai, è su questo esile crinale (tra bisogno di pace e ragioni della guerra, tra fanfare eroiche e sacrifici quotidiani e "prosaici") che si muove Clint Eastwood in Flags of Our Fathers. Fordiano perché Clint, come il vecchio John che faceva western, sa che non ci si può sottrarre al brivido dell'arrivo della cavalleria e all'emozione dell'alzabandiera sul "fortino", che qualsiasi film di guerra è in qualche maniera retorico e inevitabilmente "di parte" (e proprio per questo, forse, sta realizzando la seconda parte, Letters from Iwo Jima, dal punto di vista giapponese), ma nonostante questo può essere pacifista. E, come Ford, Eastwood prende ostinatamente le distanze dagli eroi classici e si mette nei panni della truppa, dei tanti non identificati, senza "aura", dai nomi presto dimenticati. They Were Expendable (in italiano I sacrificati di Bataan) si intitolava il bel film di Ford del '45 sulla Guerra del Pacifico: la cronaca di una missione consapevolmente suicida, dove tutti erano, appunto, "sacrificabili", al cui tono e al cui mesto umanesimo si avvicina molto Flags of Our Fathers. Persino i tre "simboli" superstiti vengono macinati in fretta dalla propaganda bellica e finiscono dimenticati o rigettati, come Ira il pellerossa, nella marginalità dalla quale sono venuti. Eastwood non ama la folla, avida di emozioni e foto ricordo, di sacrari momumentali e bandierine a stelle e strisce, come non l'amava ai tempi di Un mondo perfetto. Non ama i banchieri, i funzionari del Governo, i senatori che si ostinano a rivolgersi a Ira in qualche (una qualsiasi) lingua pellerossa, i pasticceri che confezionano torte con la forma del monumento ai caduti (ricoprendole, con pessimo gusto, di vermiglio succo di fragola). Eastwood pensa che gli eroi siano qualcosa che creiamo noi, perché ne abbiamo bisogno, ma che in realtà siano uomini che sono morti per i loro compagni, per l'uomo che stava al loro fianco o davanti a loro. In un film corale e profondamente americano (l'America delle radici, del rapporto con la memoria e con la tradizione), Eastwood continua a sviluppare la silenziosa moralità individuale degli antieroi solitari di Million Dollar Baby, Potere assoluto, Un mondo perfetto. E lo fa attraverso un incastro narrativo esemplare ed estremamente complesso, dove tre diversi piani temporali (i giorni della battaglia di Iwo Jima, i giorni - e gli anni - successivi dei tre sopravvissuti in patria e gli anni '90, in cui Doc morì e suo figlio ricostruì la sua storia di guerra) e diverse voci narranti si fondono senza soluzione di continuità, per tessere un tributo alla gente normale, a chi vive e muore, preferibilmente lontano dai riflettori e, se possibile, anche lontano dalle celebrazioni ufficiali: a quei ragazzi che, all'improvviso, un giorno vanno a fare un bagno sulla spiaggia della battaglia, al di sopra della quale si erge un monumento molto più scarno e vero ai caduti di Iwo Jima. Per favore, restate in sala fino alla fine dei titoli di coda. |
stelle, strisce e "musi gialli"
i giovedì del
cinema
invisibile
TORRESINO
aprile-giugno 2007
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