Flags of Our Fathers
Clint Eastwood  - USA 2006 - 2h 10'

da Il Messaggero (Fabio Ferzetti)

      Il nodo affrontato da film precedente in archivio Eastwood film successivo in archivio in questo film appassionante e imperfetto intreccia a forza di flashback la guerra, la propaganda e il ritorno dei reduci da una delle battaglie più sanguinose del 1945. In 31 giorni infatti morirono 21.000 giapponesi e 6.800 americani. L'obiettivo era conquistare una sperduta isoletta vulcanica di grande importanza strategica da cui poi partiranno i bombardieri diretti su Tokio. Ma questo nel film non c'è. Ci sono, in primo piano, i sei marines immortalati nella celeberrima foto in cui issano la bandiera sul monte Suribachi, e i loro destini. Rievocati dal figlio di uno di loro, oggi, deciso a far luce su quei giorni che il padre non ha mai voluto raccontare.
È il lato più vistoso del film: la propaganda. Quando quella foto finisce su tutti i giornali Usa, il governo piegato dallo sforzo bellico decide di usarla per una colossale campagna a favore dei buoni di guerra. Ed ecco i soldatini rimpatriati e spediti in giro per l'America tra feste, stadi e majorettes a ramazzare quattrini. Soffocando i sensi di colpa per i compagni rimasti a morire laggiù, e la vergogna per un titolo usurpato. Perché «gli eroi in realtà non esistono»; e perché loro piantarono solo la seconda bandiera, a sostituire la prima, più piccola. Ma la prima foto era meno potente, inoltre quei soldati sono tutti morti. Così il ruolo tocca a loro. Con conseguenze devastanti specie sul soldato pellerossa. Protagonista "occulto" che prima assaggia il razzismo quotidiano degli americani. Poi, a guerra finita, scende tutti i gradini dell'emarginazione per morire povero e solo. Chissà, forse stringendo su di lui il film sarebbe risultato più emozionante. Così, tra flashback e insistenze, Eastwood appare meno potente del solito. Ma lascia il segno nelle scene di guerra, da non paragonare a
Salvate il soldato Ryan (Spielberg co-produce) poiché seguono un principio opposto. Là protagonisti erano pur sempre i soldati. Qui sono le cose, i cannoni, i mitra, o i blindati colpiti dai mortai, a dominare la scena. Gli uomini, già figurativamente, sono dettagli, teste mozzate, corpi travolti dai cingoli o abbandonati nell'immensità dell'Oceano. Prospettiva raggelante quanto, temiamo, esatta.

da Il Film Tv (Emanuela Martini)

      Non sopportano di essere chiamati eroi. Loro hanno solo cercato di non farsi ammazzare. I veri eroi sono i ragazzi che sono morti su quell'isola. È con queste parole che i tre superstiti della fotografia che immortalò la conquista del monte Suribachi a Iwo Jima cercano di difendersi dalla folla che li circonda, di proteggersi la coscienza da una popolarità che forse non vogliono, di ricordare quello che non riescono a dimenticare: la guerra, le bombe, gli squarci nei corpi e nel terreno, le urla di dolore, il sangue, i compagni morti. Erano sei a sollevare quella bandiera (la seconda, quella dell'istantanea "storica" di Rosenthal); solo Doc, Ira e Rene sono tornati, rispediti in patria in fretta perché, mentre le sorti della guerra contro il Giappone sono tutt'altro che decise e le casse dello Stato sono ormai vuote, proprio quella fotografia ha risollevato lo spirito di una nazione che vuole solo veder tornare a casa i propri figli. E che per un atto di eroismo, per un barlume di vittoria, è disposta a pagare. Occorrono 14 miliardi di dollari per riarmare gli americani, e gli americani sono disposti a versarli, acquistando Buoni del Tesoro. Fu soprattutto per questo che, anche se la Storia smentiva la Leggenda (nel particolare tutto sommato minuscolo della doppia bandiera, e nella sostanza di una guerra ancora da vincere e delle sue perdite mostruose), da subito, dal 25 febbraio del 1945, si stampò la Leggenda. E si confezionarono gli eroi: Doc, Ira e Rene, eroi per caso, come tutti gli altri. Fordiano come non mai, è su questo esile crinale (tra bisogno di pace e ragioni della guerra, tra fanfare eroiche e sacrifici quotidiani e "prosaici") che si muove Clint Eastwood in Flags of Our Fathers. Fordiano perché Clint, come il vecchio John che faceva western, sa che non ci si può sottrarre al brivido dell'arrivo della cavalleria e all'emozione dell'alzabandiera sul "fortino", che qualsiasi film di guerra è in qualche maniera retorico e inevitabilmente "di parte" (e proprio per questo, forse, sta realizzando la seconda parte, Letters from Iwo Jima, dal punto di vista giapponese), ma nonostante questo può essere pacifista. E, come Ford, Eastwood prende ostinatamente le distanze dagli eroi classici e si mette nei panni della truppa, dei tanti non identificati, senza "aura", dai nomi presto dimenticati. They Were Expendable (in italiano I sacrificati di Bataan) si intitolava il bel film di Ford del '45 sulla Guerra del Pacifico: la cronaca di una missione consapevolmente suicida, dove tutti erano, appunto, "sacrificabili", al cui tono e al cui mesto umanesimo si avvicina molto Flags of Our Fathers. Persino i tre "simboli" superstiti vengono macinati in fretta dalla propaganda bellica e finiscono dimenticati o rigettati, come Ira il pellerossa, nella marginalità dalla quale sono venuti. Eastwood non ama la folla, avida di emozioni e foto ricordo, di sacrari momumentali e bandierine a stelle e strisce, come non l'amava ai tempi di Un mondo perfetto. Non ama i banchieri, i funzionari del Governo, i senatori che si ostinano a rivolgersi a Ira in qualche (una qualsiasi) lingua pellerossa, i pasticceri che confezionano torte con la forma del monumento ai caduti (ricoprendole, con pessimo gusto, di vermiglio succo di fragola). Eastwood pensa che gli eroi siano qualcosa che creiamo noi, perché ne abbiamo bisogno, ma che in realtà siano uomini che sono morti per i loro compagni, per l'uomo che stava al loro fianco o davanti a loro. In un film corale e profondamente americano (l'America delle radici, del rapporto con la memoria e con la tradizione), Eastwood continua a sviluppare la silenziosa moralità individuale degli antieroi solitari di Million Dollar Baby, Potere assoluto, Un mondo perfetto. E lo fa attraverso un incastro narrativo esemplare ed estremamente complesso, dove tre diversi piani temporali (i giorni della battaglia di Iwo Jima, i giorni - e gli anni - successivi dei tre sopravvissuti in patria e gli anni '90, in cui Doc morì e suo figlio ricostruì la sua storia di guerra) e diverse voci narranti si fondono senza soluzione di continuità, per tessere un tributo alla gente normale, a chi vive e muore, preferibilmente lontano dai riflettori e, se possibile, anche lontano dalle celebrazioni ufficiali: a quei ragazzi che, all'improvviso, un giorno vanno a fare un bagno sulla spiaggia della battaglia, al di sopra della quale si erge un monumento molto più scarno e vero ai caduti di Iwo Jima. Per favore, restate in sala fino alla fine dei titoli di coda.

 
stelle, strisce e "musi gialli"

i giovedì del cinema invisibile TORRESINO aprile-giugno 2007

promo

All’inizio del ’45, ormai sul finire della guerra, sei marines vennero fotografati mentre issavano, sulla cima di una collina dell’isola di Iwo Jima, la bandiera americana. Iwo, territorio vitale e sacro giapponese, fu battaglia cruentissima. Quella fotografia divenne il simbolo dell’azione e del cuore di chi combatteva e ci fu chi disse che quello scatto aveva fatto vincere la guerra contro il Giappone...
Eastwood sceglie di stampare la verità e non la leggenda, come voleva Ford: lo fa con un alto film di tempismo morale e civile eccezionale e con un'amarezza espressa in scene memorabili.