Lettere da
Iwo Jima
(Letters From Iwo Jima) |
miglior montaggio sonoro (ALAN ROBERT MURRAY e BUB ASMAN) |
da Il Messaggero (Fabio Ferzetti) |
Un
film di guerra visto con gli occhi del nemico è già una rarità, ma due
film dedicati alla stessa battaglia sono un caso forse unico. Ecco perché
girando uno dopo l'altro
Flags of Our Fathers, solo
interessante, e
Letters From Iwo Jima,
un capolavoro, Clint Eastwood compie un gesto politico e cinematografico
decisivo. Specie considerando il salto di prospettiva operato passando dal
primo al secondo capitolo. Se il film americano era in fin dei conti
dedicato alle "macchine" (la macchina della guerra, la macchina della
propaganda, i cannoni e i mezzi da sbarco delle scene di battaglia), nel
film giapponese ci sono solo i soldati, cioè gli uomini. Con tutti i loro
sentimenti e i doveri, i dubbi, i conflitti, ammirevolmente orchestrati in
un racconto corale tanto asciutto quanto libero nella struttura. Ma
stretto intorno a un pugno di personaggi frutto di un'invenzione poetica
basata su accurate ricerche (lode allo script della nippoamericana Iris
Yamashita). |
da Il Film Tv (Mauro Gervasini) |
Attraverso lettere e disegni scritti dal fronte, Clint Eastwood ricostruisce la guerra ?privata? del generale Kuribayashi, eccellente stratega, del Barone Nishi, aristocratico ex campione olimpionico, del fornaio Saigo, che sta per diventare padre, del tenente Ito, nazionalista pronto al suicidio, di Shimizu, guardia militare che ancora non ha perduto la sua fede e il suo idealismo, nonostante tutto... Non la guerra nel suo insieme ma l?episodio definitivo, lo stesso di Flags of Our Fathers: la conquista dell'isola di Iwo Jima da parte degli americani e la strenua resistenza giapponese all'invasore. Il film precedente - appassionato ma non appassionante - doveva fare i conti con l'esigenza di smontare la retorica propagandista rappresentata dalla fotografia della bandiera sul monte Suribachi senza intaccare l'eroismo dell'impresa. Il risultato era forse troppo didascalico, vuoi per il timore di generalizzare il concetto di mistificazione come più potente arma bellica, vuoi per l'esigenza divulgativa del discorso. Con Lettere da Iwo Jima Clint ragiona invece sulla percezione degli altri, sembra più libero, coraggioso nelle scelte, lascia le azioni e le scene di guerra ai margini, si rinchiude nei camminamenti e nei tunnel fatti scavare da Kuribayashi (un immenso Ken Watanabe) nella terra nera dell'Isola, che pare già inferno ed è immagine labirintica di tormentate interiorità. La fotografia desaturata di Tom Stern, i dialoghi di Iris Yamashita (il film è parlato in giapponese con sottotitoli in italiano), la recitazione di chi lavorava sul set senza capire le parole del regista (e viceversa), a volte facendo a meno dell'interprete e andando a istinto, ecco, sembra tutto sospeso, una fiaba grigia, cupissima, commovente. Ma bisogna essere chiari, perché la canonizzazione di Clint Eastwood negli ultimi anni ci fa spesso dimenticare di chi stiamo parlando e di quali siano i connotati ideologici della sua esperienza umana e artistica. Lettere da Iwo Jima non è Flags of Our Fathers dal punto di vista dei giapponesi. È invece una storia di uomini e di guerra raccontata da un americano che cerca di cogliere il punto di vista degli altri e di trasformarlo in discorso, in visione. Non a caso l'identificazione scatta con Kuribayashi, che è filoamericano, come lo stesso tenente Ito a un certo punto gli rinfaccia. Può sembrare una scorciatoia (del tipo: ha scelto un personaggio che comunque ammira l'american way of life, ed è il personaggio migliore) e invece è un atto di grande onestà: si avvicina a loro tramite colui che gli somiglia di più. Così facendo Clint compie un miracolo, perché alla fine la figura del generale, invece di definire le differenze, risalta le somiglianze, e parliamo ovviamente di caratteristiche umane prima ancora che culturali o militari. Secondo argomento su cui conviene essere chiari: Lettere da Iwo Jima non è un film pacifista. Semplicemente perché Clint Eastwood non dice mai che la guerra è inutile. Dimostra quanto sia feroce, spietata, assurda anche, ma non la mette in discussione come momento inevitabile della Storia, in particolare quella del proprio paese. Però è un film umanista perché si disinteressa completamente dell'evento (la bandiera sul monte Suribachi, per esempio, si vede solo in campo lunghissimo: in fondo è un simbolo relativo e trascurabile...) e del contesto per rappresentare le persone. Il tentativo è quello di strappare ogni soldato all'immagine stereotipata degli opposti miti (l'eroe-cowboy cinematografico da una parte; il samurai dall'altra) per finalmente rivelarlo senza giudicarlo: un eroe, un codardo, un pazzo, un gentile, un innamorato, sempre e comunque un uomo. Eastwood ricorda che 12.000 giapponesi furono dati per dispersi, a Iwo Jima. È come se attraverso gli umori e gli stati d'animo della pattuglia dei suoi protagonisti, attraverso questa storia corale, avesse cercato di far sentire per un attimo la voce di tutti loro, che nella morte sono riusciti a essere testimoni della vita. |
stelle, strisce e "musi gialli"
i giovedì del
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TORRESINO
aprile-giugno 2007
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