Le
prime notizie arrivate su Gran Torino
parlavano di un Eastwood di pregio, però più semplice, più da "grande
pubblico" del solito: non un capolavoro. Ma allora, da che cosa si
riconosce un capolavoro? Intanto, la semplicità - quando è unita alla
capacità di dire cose importanti - è un pregio, non un difetto. E Clint
dice cose molto importanti con estrema, classica semplicità. Nel
raccontarci la storia di Walt Kowalski, metalmeccanico in pensione reduce
dalla guerra di Corea e fresco vedovo, convoca temi come il razzismo, il
rapporto padri-figli, nientemeno che la capacità di amare. Interpretato da
Clint, Kowalski è un misantropo che ringhia come un mastino, sta sempre a
un passo dal suo fucile M-1, manifesta odio per i "musi gialli" che gli
hanno invaso il quartiere. Eppure Walt sa amare, molto più dei suoi grassi
e squallidi figli, bravi padri di famiglia americani cui il film riserva
tutto il suo disprezzo. Diventato eroe per caso della comunità cinese, il
vecchio solitario s' incaricherà dell' educazione - virile, sentimentale,
al lavoro - di un timido adolescente asiatico, Thao, proprio quello che ha
tentato di rubare la sua auto-feticcio, la Gran Torino
del '72 centro simbolico della storia. Un grande romanzo di formazione, e
in due sensi: non solo "cresce" il ragazzino, ma anche l' uomo al tramonto
della vita. Kowalski consegna al ragazzo le chiavi per il mondo degli
adulti, impara che si possono avere molte più cose in comune con i musi
gialli della porta accanto che con i propri figli. Semplice ed epico,
Clint è più eroico quando estrae un accendino (l'epilogo) di quando,
giovane Callaghan, tirava fuori la sua 44 Magnum. Non basta? In un film
che flirta di continuo con la morte, inserisce pause da commedia geniali.
Come in tutti i tragici, in Clint alberga l'anima di un grande comico. Che
occorre, ancora, per fare un capolavoro?
Roberto Nepoti – La
Repubblica
Una
lezione di saggezza dall’ispettore Callaghan. Di saggezza, di tolleranza,
di apertura. Dunque di politica. Proprio così: dall’alto dei suoi 78 anni
l’ultimo grande classico del cinema americano classico per statura e per
linguaggio ci consegna un capolavoro di lucidità e di coraggio.
Cinematografico e personale. Si intitola
Gran Torino,
dal nome di un glorioso modello della Ford anni ’70 (lo stesso decennio di
Callaghan). Ma il bello è che approda a conclusioni apparentemente lontane
dal Clint Eastwood di una volta senza rinnegare nessuno degli ingredienti
con cui ha costruito il suo mito. L’individualismo, il patriottismo, il
senso della frontiera (dunque del diverso), la necessità non di farsi
giustizia da soli, ma di essere giusti in prima persona. Perfino il
ricorso alla forza, se occorre. Anche se la forza più grande, in tempi
tanto oscuri, è quella di chi sa rinunciare alla violenza perché solo così
può battere il “nemico”... Ma non anticipiamo troppo. Gran Torino
è
innanzitutto un film, un magnifico film, come se ne vedono di rado. E va
apprezzato come tale, per la maestria davvero musicale con cui Clint torna
sui temi a lui più cari, precisandoli e ravvivandoli a colpi di invenzioni
e sorprese continue. Con uno sguardo insieme desolato e autoironico che fa
del ringhioso Kowalski, operaio della Ford in pensione nei sobborghi di
Detroit, vedovo, veterano della guerra di Corea, un dinosauro che dice
ancora “musi gialli” ai vicini asiatici e detesta i suoi stessi figli,
arricchiti e rammolliti dal consumismo, uno dei suoi più bei personaggi di
sempre. Anche perché, come in
Million Dollar Baby, dietro il
roccioso Kowalski (nome da immigrato naturalmente) si nasconde proprio un
padre, forse addirittura quel Padre ideale di cui si è perso lo stampo.
Ma il primo a ignorarlo è lui, troppo occupato dalla sua rancorosa
solitudine e da chissà quali fantasmi per dedicare attenzione a quei
vicini asiatici rumorosi e disordinati. Fino a quando, ironia della sorte,
dopo aver sventato fucile in pugno il furto dell’amatissima Gran Torino,
l’ex operaio della Ford non si trova a difendere proprio il piccolo
asiatico spedito a rubargliela da una gang di consanguinei che lo
considera una femminuccia. È solo il primo scatto, ma indietro non si
torna. Poco a poco il pensionato razzista e paranoico scopre che anche i
suoi vicini asiatici, così numerosi, impenetrabili e non meno ostili di
lui (esilarante il faccia a faccia di insulti a denti stretti che Kowalski
e la vicina si scambiano dalla veranda, ognuno nella sua lingua), si
portano dietro una cultura, una cucina, un codice di condotta, una
religione. Un mondo. Diverso, attenzione, e irriconducibile al suo, ma per
certi versi più vicino a lui di un’America irriconoscibile. Tanto che
proprio dall’incontro con quegli asiatici, non cinesi, né coreani, né
vietnamiti ma Hmong, un’etnia che vive a cavallo fra il Laos, la
Thailandia e il Vietnam, nasce l’opportunità di rinnovare il patto su cui
si fonda da sempre l’America. Che non consiste nell’integrazione forzata
ma nel rispetto delle differenze, appunto, illuminato da una curiosità che
è coscienza della potenziale ricchezza offerta da un tessuto sociale tanto
eterogeneo.
Anche perché l’alternativa sono le gang rivali, come si vede anche in Gran
Torino. Qua i messicani, là i neri, là gli asiatici, etc. Mentre basta una
bella scarica di sanguinosi ma amichevoli insulti razzisti, come quelli
che Kowalski scambia ritualmente col suo barbiere, un italiano
“maccheroni”, per stabilire quello schietto cameratismo che è il più
efficace anticorpo a ogni deriva davvero intollerante (in questo le nostre
periferie non sono seconde a nessuno, basterebbe andare a guardare e
raccontarlo, anziché soffiare sul fuoco e organizzare le ronde).
Quanto alla tentazione delle armi, che questo nipotino di Callaghan
conosce e maneggia assai bene, anche qui c’è un antidoto, forgiato nello
stesso metallo lucente. Sono gli strumenti custoditi nella sua curatissima
rimessa, che “papà” Kowalski illustra pazientemente al giovane allievo
Hmong. Lavoro contro violenza dunque, pazienza contro rabbia. Perché ci
vuole tempo a riunire tutti quegli utensili, e altrettanto per imparare a
usarli. E qui torna in mente il Primo Levi de La chiave a stella, altro
testo dedicato alla “lingua universale” parlata dagli strumenti di lavoro.
Curioso accostamento davvero, che dice tutta la portata, e la sorpresa, di Gran Torino.
Fabio Ferzetti -
Il Messaggero
promo
Walt Kowalski,
metalmeccanico in pensione, reduce dalla guerra di Corea e fresco
vedovo (con due figli volgarmente scaltri), si trova unico
«bianco» nel suo Middle West ormai pieno di asiatici. Razzista, il
pensionato che ha lavorato alla Ford e conserva una mitica Gran
Torino, diventa comprensivo e si fa giudice dei torti subiti da un
ragazzino «nipote» putativo vittima di bulli. Clint torna sui temi
a lui più cari, precisandoli e ravvivandoli a colpi di invenzioni
e sorprese continue. E, con una maestria "musicale" e uno sguardo
insieme desolato e autoironico, ci spiega che l'accettazione della società multirazziale non è
frutto di ideologie, ma di una faticosa pratica quotidiana.
Un film magnifico, come se ne vedono di rado.