In un mondo migliore (Hævnen)
Susanne Bier - Danimarca/Svezia 2010 - 1h 53'

    Cinema etico e cinema appassionato quello di Susan Bier. Chi ha visto Open Hearts (2002), Non desiderare la donna d’altri (2004) o anche solo Dopo il matrimonio (2006) avrà colto come i dilemmi morali facciano parte dell’essenza della sua scrittura cinematografica e come il senso di responsabilità sia il cardine destabilizzante del(l’apparente) quieto vivere dei suoi protagonisti.

In un mondo migliore parte dall’esperienza umanitaria di Anton, chirurgo in un campo medico dell’Africa nera che si trova, tra le altre incombenze, anche quella di dovere suturare il ventre squarciato di giovani donne incinte, orrida “verifica” per le scommesse di un crudele capo banda sul sesso dei nascituri. Un lavoro a tempo pieno il suo, ma quando, nelle pause, torna in Danimarca, Anton non sa ritrovare la serenità di cui avrebbe bisogno. La sua vita familiare è critica: la moglie l’ha allontanato non perdonandogli un tradimento e il figlio Elias è vittima di continui episodi di bullismo a scuola. Al parallelismo tra due realtà civili così lontane e di così diversa, intima sofferenza sociale e umana, si somma, nell’intensa struttura narrativa della Bier (sceneggiatrice oltre che regista), quello con un’altra situazione familiare sull’orlo del collasso: qui il protagonismo è affidato subito al dodicenne Christian, straziato dalla perdita della madre. Rinfaccia al padre e alla madre stessa di aver accettato con troppa rassegnazione quella morte, di non aver combattuto abbastanza con il demone del cancro. Dall’incontro tra i due ragazzi prende forma la dinamica narrativa di In un mondo migliore. Christian dimostra ad Elias come le angherie possano essere debellate solo rispondendo alla violenza con la violenza e l’influenza negativa di questa giovane anima, indurita e ribelle, viene via via a pervadere anche l’esistenza degli adulti. In primis quella di Anton che, costretto a subire personalmente un episodio “adulto” di sfrontata aggressività, non riesce a trasmettere al figlio la sua idealità di porgere l’altra guancia, di non farsi coinvolgere dall’imbecillità delle provocazioni, di accantonare ogni pulsione di rivalsa e vendetta.


Il dolore represso di Christian diventa inesorabilmente deus ex machina della vicenda e mentre, in Africa, Anton prima non esita a soccorre il crudele capo tribù ferito ad una gamba e poi, di fronte alla sua proterva disumanità, quasi tradendo il giuramento di Ippocate, lo lascia nelle mani della folla inferocita, nella linda Danimarca i due ragazzi preparano una rudimentale bomba (istruzioni per la costruzione via internet!) per punire il gradasso avversario del padre di Elias. E proprio le contraddizioni, che scaturiranno dall’animo fragile ma non abulico di Elias, saranno la chiave di volta per un crescendo finale che sa ricucire ogni lacerazione concedendo al cinema una chance di ottimistico lieto fine che forse l’aridità del reale non saprebbe ritrovare. La capacità della Bier di innescare il meccanismo della tensione emotiva sulla base delle interrelazioni tra gli eventi e i drammi interiori è straordinaria, abile impasto del rigore bergmaniano film in archivio e della provocazione di Lars von Trier film precedente in archivio.


I volti e gli sguardi dei piccoli protagonisti - da una parte Christina ed Elias, in balia delle crisi morali di una società emancipata, dall’altra i ragazzini africani che affollano con sorridente ingenuità i campi medici “della speranza” – rendono testimonianza delle contrapposizioni esistenziali di un mondo non certo eticamente globalizzato. Quale il mondo migliore a cui il titolo si riferisce? Quello che i volontari cercano di costruire nell’Africa lontana? Quello sempre a rischio “civile” del nord del mondo? Forse quello utopico di un cinema appassionato e appassionante come quello di Susan Bier…

ezio leoni - La Difesa del Popolo - 25 dicembre 2010

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Cinema etico e cinema appassionato quello di Susan Bier, in cui il senso di responsabilità diventa il cardine destabilizzante del(l’apparente) quieto vivere dei suoi protagonisti. Qui si parte dall’esperienza umanitaria di Anton, chirurgo in un campo medico dell’Africa nera il quale, al ritorno nella sua Danimarca, non sa ritrovare la serenità di cui avrebbe bisogno. La moglie l’ha allontanato non perdonandogli un tradimento e il figlio Elias è vittima di continui episodi di bullismo a scuola. Ma Elias ha un amico Christian, straziato dalla morte della madre, che gli dimostra come le angherie possano essere debellate solo rispondendo alla violenza con la violenza… Proprio le contraddizioni, che scaturiranno dall’animo fragile ma non abulico di Elias, saranno la chiave di volta del crescendo finale. La capacità della Bier di innescare il meccanismo della tensione emotiva sulla base delle interrelazioni tra gli eventi e i drammi interiori è straordinaria, abile impasto del rigore bergmaniano e della provocazione di Lars von Trier.

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