È
un film Anche in
questo caso, grande delusione. La commedia corale scritta da Margaret
Mazzantini e girata e interpretata dal di lei marito Sergio Castellitto
pare un pamphlet (ahimé, involontario) su ciò che non va nella generazione
dei cinquantenni italiani radical chic che si ostinano a ergersi a modello
per il paese. Il film racconta un gruppo di presuntuosi di quella
generazione arroccati in una villa di campagna e intenti a sbranarsi a
vicenda, fagocitando anche i propri figli adolescenti (maternità
tardive?).
Sarebbe un bel j’accuse, peccato che i personaggi siano tutti
stereotipati. Si salvano solo i giovani (soprattutto Pietro Castellitto) e
il decano Jannacci che, pur incomprensibile perché si mangia le parole,
trasmette fisicamente quella pulizia interiore che nella vita gli fa
trascorrere più tempo nel pronto soccorso per sans papier che nei salotti
della Milano bene. Salotti nei quali, invece, altri sembrano aver
soggiornato troppo a lungo per mantenere quel graffio doloroso che non
mancava al vero maestro del genere, il rimpianto Monicelli.
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È
un film curioso e coraggioso, malinconico e surreale, l’opera n°3 di
Sergio Castellitto dietro alla macchina da presa. Uno di quei titoli che
non consentono al recensore di prevedere con quale tipo di reazioni dovrà
fare i conti:
La bellezza del somaro,
in effetti, è una neo-commedia all’italiana (tratta da un racconto di
Margaret Mazzantini) che non vuole lisciare il pelo ai mangiafilm di bocca
buona, ma nello stesso tempo si rivela ostile agli adepti del cinema
protetto, edificante, garantito da nobili certezze o magnanimi conforti.
La dose di estrosa cattiveria e intelligente scorrettezza che il grande
attore dispensa a piene mani gli impedisce, inoltre, d’apparire fermo a
metà del guado fra la tendenza Muccino e la tendenza Virzì e fa capire
come i suoi referenti da regista siano piuttosto Ferreri e i Monthy Python.
Tenuta pour cause assai sopra le righe, la ballata in forma di farsa
intende prendere di petto innanzitutto i benestanti coniugi borghesi
Castellitto e Morante, perfettamente ligi al format
benpensante/progressista che si vuole antropologicamente contrapposto a
quello cafonal/teledipendente. Una gragnuola di colpi alti e bassi che,
radunando adulti amici e parenti nonché adolescenti figli e fidanzati per
un weekend nella canonica casa di campagna, non la fa buona a nessuno: un
coro d’interpreti stonati della postmodernità, una sfilata di sgangherati
cercatori di felicità materiali e spirituali, un tourbillon di schiavi
delle proprie ubbie o fissazioni spacciate per prerogative o ideali. Il
sovratono nevrotico noir, servito da un montaggio mercuriale, potrebbe
esasperare, ma la somma bravura di Castellitto nello scegliere e gestire
gli attori stabilisce l’ancoraggio principale: si dimostrano tanto più
credibili quanto più paradossali lo stesso blaterante protagonista, la
psicologa Morante attorniata da mamma aggressiva e pazienti
irrecuperabili, il manager Imparato che compita l’inglese traducendo a
ruota libera il nulla, l’urlante preside Grimalda che «sta sul
territorio», la badante kapò Ketral, il volgare e promiscuo chirurgo
Giallini, l’ex moglie Vitale giornalista «de' sinistra», i diciassettenni
Mencarelli, Lo Sasso, Pietro Castellitto non meno inguardabili e
svalvolati. Il colpo di genio del copione è riservato alla viziata figlia
Rosa (la tenerissima e tostissima Nina Torresi), pronta a trapiantare il
nuovo boyfriend in seno alla famiglia allargata: tutti aperti, giovanili,
ecosolidali, democratici, ma tutti ugualmente inebetiti al cospetto
dell’alieno signore settantenne che legge Adelphi, suona i bonghi e si
chiama Armando. Il castello di carte costruito con un po’ di karaoke e di
femminismo a buon mercato crolla ancora prima che papà per capirci
finalmente qualcosa si metta a sfumacchiare una canna. Armando,
interpretato da Enzo Jannacci con una stralunata imperturbabilità che
ricorda il mitico Chance di
Oltre il giardino,
certifica come la vecchiaia esista e costituisca un antidoto al finto
vitalismo della società infingarda e taroccata. E come forse l’origine del
caos stia nella rozza quanto concreta massima del manager: quando eravamo
giovani, i giovani non contavano un c...; ora che siamo genitori noi, i
genitori non contano un c... |